Per oltre 16 anni Gaia Segattini lavora come fashion designer per marchi internazionali di abbigliamento sportivo e streetwear, collaborando con brand americani e australiani e i loro licenziatari
per il mercato europeo. In questo lungo periodo entra in contatto con diversi tipi di pubblico, secondo logiche progettuali che riflettono i suoi valori. «Nei marchi di sportwear l’abbigliamento è inteso più come un mezzo di espressione, a differenza del lusso che spesso mira a sottolineare uno status», racconta Gaia. «L’originalità del brand viene apprezzata se connessa a valori sociali e culturali».
Dopo il 2009 a seguito della crisi di Lehman Brothers e con l’avvento della delocalizzazione, il modo di lavorare cambia. La distanza tra gli uffici di progettazione e le fabbriche manifatturiere estere rende difficile la comunicazione, la produzione rallenta, i prodotti perdono di qualità e vengono semplificati per contenere i costi.
Le fabbriche producono per diversi brand contemporaneamente, con risultati simili e poco creativi. I capi vengono prodotti all’estero per essere poi arricchiti in Italia con dettagli superficiali come ricami
e borchie. Le produzioni in serie rendono i brand poco coraggiosi. La necessità di smaltire grandi volumi di capi porta a una standardizzazione dei prodotti, al fine di garantire una maggiore vendibilità.
A queste condizioni Gaia non ci sta più. Vede il suo lavoro svuotarsi di significato e inizia a sentirsi a disagio sia da un punto di vista etico che creativo. Insoddisfatta, abbandona le consulenze e si dedica alla divulgazione, promuovendo l’artigianato digitale e piccole realtà dalla filiera corta. Nel 2019, fonda il suo brand, Gaia Segattini Knotwear, fatto di colori vivaci e di capi dalla personalità “pop punk”, realizzati con filati in esubero. Nel 2022 Knotwear diventa Società Benefit e nel 2023 vince il Premio Impresa Ambiente per la “miglior gestione dello sviluppo sostenibile”.
Come nasce Knotwear?
«Ho attraversato tre diverse fasi nel mio percorso professionale. La prima da designer, la seconda da divulgatrice e poi è arrivata la terza: mi sono resa conto che non mi bastava più parlare delle nuove possibilità dell’artigianato digitale, sentivo la necessità di creare qualcosa di concreto, un’alternativa che avesse un impatto reale, non solo un progetto creativo fine a sé stesso. Dopo aver lavorato per vent’anni all’interno di grandi aziende, l’idea di produrre qualcosa senza significato, solo per il gusto di farlo, mi ripugnava. La mia missione era passare da un modello di controcultura che criticava il sistema tradizionale, sfidando le logiche della produzione di massa e del fast fashion, a un tentativo di cambiarlo dall’interno».
Quali sono le opportunità dei nuovi brand che nascono digitalmente, come il tuo?
«Tra le novità ce n’è una fondamentale: l’ascolto del pubblico finale. Per anni, nella tradizionale filiera produttiva di beni di consumo, il contatto diretto con l’utente finale era quasi inesistente. La produzione passava attraverso diversi stadi – rivenditori, distributori, rappresentanti – e chi realizzava il prodotto non sapeva mai davvero cosa pensassero le persone che lo acquistavano. Questi aspetti portavano a enormi sprechi e all’esistenza di brand senza un pubblico reale. Al contrario, Knotwear nasce da un grande ascolto della community, dall’attenzione alla filiera produttiva, con piccoli lanci di prodotti anziché collezioni, e dall’uso di materie prime di giacenza, una scelta quasi obbligata per gli artigiani che non hanno i numeri per grandi acquisti. La sfida era prendere un modello microscopico e renderlo qualcosa di strutturato che potesse davvero fare una qualche differenza. Un’altra grande opportunità di questo tipo di imprenditoria è che restituisce la creatività nelle mani del brand, il che conferisce un potere, per quanto microscopico».
Come sei riuscita a connettere la tua esperienza nella moda con la nuova imprenditoria digitale e artigianale?
«Negli anni ho fatto molta divulgazione su questa nuova imprenditoria digitale artigianale, iniziando quando esistevano pochissimi artigiani di questo tipo. Ho costruito una rete, cercando di collegare questa nuova modalità produttiva, gestita da singole persone, a un recupero di materie prime e strumenti tradizionali, rivisitati in chiave contemporanea grazie alla comunicazione digitale. È un approccio che ha trasformato la percezione del settore, creando un modello di business che, a livello collettivo, è diventato una valida alternativa alla grande distribuzione. Quello che un tempo era visto come controcultura, oggi è un movimento strutturato, con brand artigianali che fanno parte della nostra quotidianità».
Sei partita nel 2019, quindi un anno prima della pandemia. Ne hai risentito?
«Paradossalmente, durante il periodo del Covid molti brand hanno venduto tantissimo, con picchi di vendite a cui nessuno era preparato. Questo boom, però, si è rivelato illusorio. Le aziende hanno basato le loro strategie su dati “drogati” da quel periodo, ma poi le vendite sono crollate. Le ragioni sono molteplici: dall’inflazione alla precarietà del mercato del lavoro, soprattutto in Italia, dove gli stipendi sono tra i più bassi d’Europa e dove la classe media è praticamente scomparsa».
A proposito di inflazione, come rispondi all’obiezione di molti secondo cui la moda sostenibile costa troppo?
«La vera domanda è: costa troppo rispetto a cosa? Siamo stati abituati da 15 anni di fast fashion che hanno drogato la nostra percezione del costo reale dei prodotti. Se guardiamo ai prezzi degli anni ’90, vediamo che erano molto simili a quelli attuali, solo che allora i prodotti erano fatti per durare una vita, non come oggi. Il concetto di “costa troppo” si è distorto perché abbiamo dimenticato cosa significhi produrre qualcosa di qualità. Se mettiamo a confronto i prezzi di allora rispetto all’inflazione odierna, risultano comunque costosi, ma almeno erano prodotti destinati a durare. Così come il vintage che vediamo oggi esiste proprio perché una volta gli oggetti erano fatti per resistere nel tempo. Il motivo per cui oggi abbiamo perso la percezione di quanto costi davvero produrre qualcosa è che molti oggetti vengono prodotti all’estero o tramite subfornitori in situazioni poco trasparenti, anche Italia. Spesso si demonizza il fast fashion prodotto in Vietnam, dimenticando che il lusso funziona nello stesso modo. Ci sono casi di subfornitori in Italia che lavorano in condizioni di semi-schiavitù per grandi marchi, compresi quelli del lusso».
Per te cosa significa “sostenibilità”?
«Quando si parla di sostenibilità spesso si fa riferimento alle materie prime, quando in realtà la sostenibilità è fatta di tantissimi aspetti. Non si tratta soltanto del materiale che si utilizza. Certo, il materiale è importantissimo, ma il problema più grande che hanno tutti è il costo della manodopera. In Italia è altissimo e i brand trovano delle scorciatoie grazie al fenomeno della subfornitura. Finché esiste la subfornitura non può esistere la sostenibilità, perché non c’è tracciatura. Per me, il modo di essere sostenibili in questo settore consiste nel non affidarsi alla produzione esterna, ma collaborare direttamente con un produttore. Ho scelto di lavorare in partnership con un maglificio, così da poter controllare tutto il processo.
La mia sede (Casine di Ostra, nell’anconetano – ndr) è vicina al maglificio e ci vado tutti i giorni, non perché non mi fidi, ma perché è lì che nascono tutte le idee. La mia strategia è basata su una stretta collaborazione con piccoli artigiani e su un controllo diretto della filiera. Per esempio, nella maglieria, i costi di prototipia sono molto alti perché non si parte da un tessuto, ma da un filo, e tutto viene programmato attraverso macchine altamente tecnologiche. Ogni dettaglio, dalla tensione del filo alle lavorazioni, deve essere perfetto, il che rende il processo lungo e complesso. Ma la partnership con il maglificio mi consente di abbattere molti di questi costi. Non si tratta solo di un rapporto di lavoro: abbiamo creato un vero e proprio scambio. Per esempio, quando Knotwear è diventato Società Benefit, anche il maglificio ha deciso di adottare il nostro modello di report di impatto, li ho aiutati a trovare nuovi clienti, abbiamo acquistato dei mobili insieme per l’esterno. È una collaborazione reale, alla pari, e il prodotto nasce dal lavoro comune, non da un bozzetto predefinito».
Quindi collabori con un unico produttore?
«Sì, l’azienda è nata nel 2019 in collaborazione con il titolare di questo maglificio, uno dei piccoli terzisti italiani rimasti. Molti laboratori hanno chiuso, ma quelli che restano lavorano per i grandi marchi del lusso. Questi marchi, dopo la pandemia, hanno scaricato tutti i costi della sostenibilità sui loro fornitori: dai pannelli solari agli stipendi. Il problema è che molte delle aziende italiane sono piccole, con meno di 20-30 dipendenti, e non hanno i margini per sostenere tali costi extra. I fornitori provano a rifletterli sui prezzi dei prodotti, ma i marchi non lo accettano. Ecco perché penso che la sostenibilità, per i grandi brand, sia un’illusione: alla fine, il lusso è solo un fast fashion con margini più alti».
Qual è il tuo rapporto con i subfornitori?
«Anche i piccoli laboratori che collaborano con noi sono vicini al maglificio, quindi visitiamo regolarmente i subfornitori. Non ci sono segreti o pratiche nascoste, anzi, durante il Black Friday abbiamo realizzato dei video per mostrare chi lavora con noi, dalla signora che cuce in casa fino ai laboratori più strutturati. Questo controllo diretto riduce anche gli sprechi, perché possiamo produrre solo ciò che sappiamo che verrà venduto».
Secondo te può davvero esistere una moda sostenibile?
«Per i grandi brand, assolutamente no. Il sistema moda, soprattutto quello del lusso, è fondato sull’insostenibilità. Il lusso, tra la necessità di affermare uno status, gli eventi, le collaborazioni e la continua spinta verso la novità, genera sprechi enormi. Non è possibile per loro produrre in modo sostenibile perché il loro modello si basa su margini altissimi e costi bassi. Più che nella sostenibilità, credo invece nella buona imprenditoria e nel buon senso, applicati in ogni fase: dalla scelta delle materie prime alla filiera, fino alla comunicazione con i clienti. Come ho già detto, non si tratta solo di usare materiali sostenibili, ma anche di creare un rapporto di fiducia con chi lavora per te, con il pubblico e di utilizzare una comunicazione che, invece di generare insicurezza, ti conforti, con una vestibilità pensata per tante taglie. Quando è iniziata la delocalizzazione produttiva, è stato il momento in cui abbiamo cominciato a sentire insicurezze anche rispetto al nostro corpo, perché con la necessità di avere più margini si sono ridotte le taglie».
Insomma, per essere sostenibili bisogna rimanere piccoli?
«Più che restare piccoli, direi che bisogna restare su una dimensione che permetta di mantenere il controllo. Oggi stiamo assistendo a un cambio di guardia. I grandi marchi che sono nati nel dopoguerra o negli anni ’80 stanno lentamente scomparendo o trasformandosi. I marchi più piccoli e invisibili di oggi, quelli che riescono a creare una connessione vera con il loro pubblico, saranno quelli che avranno successo in futuro. Non credo che in futuro vedremo più solo i grandi nomi come quelli che conosciamo oggi. Il panorama sarà molto più frammentato».
Sul sito di Knotwear ritorna spesso il termine “pop”. Che significato ha per te e a quale target ti rivolgi?
«Produciamo poco quindi possiamo permetterci di scegliere i nostri clienti. Preferiamo vendere a persone che ci somigliano, con cui potremmo uscire a cena. Quanto al termine “pop”, ha una doppia accezione. La nostra scelta stilistica è influenzata anche dalle materie prime. Lavoriamo principalmente con filati di giacenza, quindi i colori che avanzano di solito non sono il nero o il blu, ma colori accesi. Questo ci dà un’energia positiva e ci rende “pop”, non solo per lo stile, ma anche per il desiderio di offrire alta qualità a un prezzo accessibile. Se il prezzo finale non è ok, anche il margine di guadagno non lo è. I nostri prezzi non sono bassissimi, ma non sono nemmeno alti. Sono possibili. Per poterli mantenere così come sono, abbiamo la necessità di vendere direttamente al cliente finale. Noi vogliamo essere popolari ed entrare nelle case delle persone per cambiare la mentalità. Qualsiasi marchio sostenibile, se non si vende, quindi se non entra in casa della gente, allora non può considerarsi davvero sostenibile».