Un “catastrofico calo del 73% della dimensione media delle popolazioni di animali selvatici a livello mondiale in soli 50 anni”, che rivela un “sistema in pericolo”: sono queste le parole usate da WWF International per introdurre il nuovo Living Planet Report, rapporto biennale curato da WWF e ZSL che offre una visione scientifica dello stato della natura, evidenziando i suoi legami con la crisi climatica, i fattori umani che ne sono la causa e le possibili soluzioni.
A questo dato sconsolante si aggiunge ora un nuovo documento redatto da Global Footprint Network ed European Topic Centre on Biodiversity and Ecosystem Services (ETC-BE), in cui la perdita di biodiversità viene attribuita anche a modelli di sviluppo economico e sociale che prediligono l’espansione economica a breve termine, trascurando l’impatto a lungo termine sugli ecosistemi.
Exploring the societal factors enabling to halt and reverse the loss and change of biodiversity – questo il titolo del report – individua otto barriere principali che ostacolano l’inversione di tendenza nella crisi della biodiversità. Tra queste, oltre a fattori già conosciuti come cambio d’uso delle aree, sfruttamento delle risorse naturali, climate change, inquinamento e invasione di specie aliene, figurano norme sociali e la diffusione di informazioni errate, che minano la consapevolezza del pubblico sull’importanza della conservazione della biodiversità. Inoltre, l’approccio utilitaristico verso le risorse naturali e la tendenza a perseguire profitti immediati, sacrificando la sostenibilità, rappresentano significativi ostacoli al cambiamento.
A queste si aggiungo altre sei barriere definite psicologiche, e che portano in gioco fattori come la percezione che il cambiamento non sia necessario o addirittura inutile; la mancanza di conoscenza in materia; obiettivi e aspirazioni contrastanti; tokenismo, una pratica che consiste nel fare uno sforzo superficiale o simbolico; tipologia, profondità e incisività nelle relazioni tra pari; attribuzione esterna delle responsabilità. “Per definizione”, si legge nel documento, “le attività umane sono destinate a soddisfare i bisogni e i desideri delle persone, […] sfruttando risorse scarse per fornire alle persone quanti più beni e servizi possibili […], a un basso costo economico e nel più breve lasso di tempo possibile”.
Per superare queste barriere, il report suggerisce leve di trasformazione sociale, strumenti in grado di produrre i cambiamenti generali e generalizzati necessari a rimuovere gli ostacoli. Gli autori a questo proposito parlano della necessità di promuovere un nuovo racconto positivo (“alternative narrative”) sul valore della natura, favorendo la coscienza e la conoscenza della nostra dipendenza dalle risorse naturali e una transizione più fluida. Questo accompagnato a sforzi per ridurre gli squilibri di potere nelle nostre società che favoriscono l’eccessivo sfruttamento ambientale e al rafforzamento della governance istituzionale per gestire la complessità delle sfide ambientali. “[…] Per affrontare efficacemente la perdita e il cambiamento della biodiversità sono necessari cambiamenti comportamentali in un triangolo di parti interessate e livelli: individui, collettività e istituzioni/governance […]” si legge nella parte conclusiva del report.