Alla COP29 di Baku, il negoziato sul finanziamento climatico resta il cuore della discussione. Le parti lavorano per trovare un accordo sul cosiddetto “quantum”, ovvero l’entità delle risorse da destinare ai Paesi in via di sviluppo per affrontare il cambiamento climatico. L’obiettivo dichiarato è ambizioso: passare dai 100 miliardi di dollari annui, previsti dall’Accordo di Parigi e in scadenza nel 2025, a 1.000 miliardi annui.
La strada è tutt’altro che in discesa. «In questo momento evitiamo di parlare di cifre», ha dichiarato ieri il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin al termine della sua prima giornata di incontri a Baku. «L’impegno assunto è di non parlare di numeri».
Lotta tra richieste e offerte: quanto vale la transizione climatica?
Sono diverse le cifre che circolano tra i negoziati. Secondo alcune fonti diplomatiche, l’Unione Europea starebbe valutando un contributo tra i 200 e i 300 miliardi di dollari in aiuti pubblici, mentre Paesi come l’India ne chiedono 600. I membri del G77+Cina, invece, spingono per almeno 300 miliardi a fondo perduto. Parallelamente, si punta a coinvolgere la finanza privata e le banche multilaterali di sviluppo per colmare il divario e raggiungere la cifra totale di 1.000 miliardi di dollari all’anno.
Una strategia mista sembra farsi largo: da un lato, un “nocciolo duro” di 200-300 miliardi di dollari in contributi pubblici a fondo perduto; dall’altro, prestiti a tasso agevolato garantiti dagli Stati e da istituzioni multilaterali. «Verosimilmente, il testo che verrà pubblicato oggi potrebbe presentare opzioni multiple, lasciando spazio per negoziare ulteriormente i dettagli alla COP30», commentano gli osservatori.
Un accordo senza dettagli?
Tra le ipotesi in discussione, quella di un compromesso che definisca lo “scheletro” dell’accordo senza specificare la qualità della finanza. Cifre generiche potrebbero essere inserite nel testo finale senza chiarire se si tratterà di sovvenzioni, prestiti a tasso zero o altre forme di finanziamento. «È una mossa rischiosa», sostengono alcuni analisti, «ma potrebbe rappresentare l’unica via per evitare lo stallo».
La posta in gioco: giustizia climatica e interesse comune
Dietro il dibattito economico, la necessità di un sostegno reale ai Paesi più vulnerabili è una questione di giustizia climatica. «I disastri climatici colpiscono duramente l’UE, che è un hotspot climatico: si riscalda a una velocità doppia rispetto al resto del pianeta. E il Mediterraneo è un hotspot europeo», spiega Mauro Albrizio, responsabile ufficio europeo di Legambiente.
La sua analisi è chiara: «Siccome le emissioni climalteranti non hanno frontiere, se non aiutiamo i Paesi in via di sviluppo, ne pagheremo i danni». Non si tratta solo di solidarietà: sostenere la transizione climatica nei Paesi emergenti è anche nell’interesse delle economie industrializzate, che altrimenti rischiano di trovarsi ad affrontare crisi climatiche più frequenti e costose.
Un futuro incerto
A Baku, il tempo stringe e il rischio è che il compromesso rimanga incompleto, con decisioni rinviate alle prossime conferenze. Ma una cosa è certa: senza risorse adeguate, il sostegno alla transizione climatica globale rischia di fallire, con ripercussioni devastanti sia per i Paesi più poveri che per quelli più ricchi.