La COP29 ha preso il via ieri a Baku, in Azerbaigian, portando sul tavolo diplomatico uno dei dibattiti più complessi e divisivi mai affrontati nella storia delle conferenze sul clima. Con un contesto reso incandescente dalle nuove previsioni delle Nazioni Unite che designano il 2024 come l’anno più caldo mai registrato, come anticipato il summit si svolge in un clima di profonda incertezza politica e logistica, aggravato dalle defezioni dei leader di potenze chiave: da Biden a von der Leyen fino a Lula e Modi. Anche il premier spagnolo Perez, trattenuto in patria a causa della catastrofica alluvione che ha devastato Valencia, sarà assente.
Il summit è segnato inoltre dalla posizione ambigua degli Stati Uniti, che, sotto l’amministrazione Trump, minacciano di abbandonare l’Accordo di Parigi. Si tratta di un rischio gravoso per i negoziati, considerando che gli Stati Uniti sono il primo emettitore mondiale di gas serra. A questo si aggiunge un’altra ombra: il paese ospitante, l’Azerbaigian, è altamente dipendente dall’esportazione di combustibili fossili.
Durante la cerimonia di apertura, Sultan Ahmed Al Jaber, presidente della COP28, e Mukhtar Babayev, presidente della COP29, hanno fatto appello a una partecipazione attiva e determinata. Simon Stiell, Segretario Esecutivo dell’Unfccc, ha espresso la necessità di considerare la finanza climatica non come un atto di beneficenza, bensì come un obbligo internazionale: «Finanziare gli aiuti climatici non è beneficenza».
Il Fondo NCQG e il ruolo dei finanziatori
Tra i principali obiettivi di COP29 c’è la definizione di un nuovo traguardo per la finanza climatica, noto come NCQG (New Collective Quantified Goal), ossia il contributo annuale che le nazioni più ricche devono destinare ai paesi vulnerabili. Gli accordi di Baku puntano a superare i 100 miliardi di dollari fissati nel 2009 alla COP16 di Copenaghen, una soglia che dovrebbe essere aumentata in modo sostanziale per soddisfare le esigenze finanziarie legate alla crisi climatica. Il think tank Ecco conferma: “L’obiettivo è chiaro: garantire un nuovo target e un modello di finanziamento inclusivo, da risorse pubbliche alle Banche Multilaterali di Sviluppo e investimenti privati”.
A rendere complicato il percorso per un accordo sono però le resistenze tra finanziatori e beneficiari. Mentre i destinatari dei fondi chiedono autonomia nella gestione delle risorse, i paesi donatori esigono un sistema di monitoraggio rigoroso. Inoltre, è ormai pressante il bisogno di aggiornare la lista dei “paesi industrializzati” in grado di contribuire: molte nazioni oggi grandi emettitori, come Cina e stati del Golfo, attualmente non figurano tra i principali finanziatori, e l’idea di includerli nel gruppo trova forte resistenza.
António Guterres: «L’era dei combustibili fossili è al tramonto»
Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, si è espresso duramente contro chi ostacola la transizione energetica: «Coloro che cercano disperatamente di ritardare e negare l’inevitabile fine dell’era dei combustibili fossili cercano di trasformare l’energia pulita in una parolaccia. Perderanno. L’economia è contro di loro. Le soluzioni non sono mai state più economiche e accessibili». L’appello è chiaro: l’economia globale deve cambiare direzione per sopravvivere alla crisi climatica.
L’allarme degli analisti finanziari
Secondo una recente ricerca congiunta di Boston Consulting Group e Cambridge Judge Business School, l’immobilismo climatico potrebbe provocare perdite dal 10 al 15% del PIL globale entro il 2100. Marco Tonegutti, Managing Director di BCG, ha dichiarato: «Assistiamo a un progressivo incremento nella frequenza e nell’intensità degli eventi climatici estremi. Tardare l’adozione di misure necessarie per limitare il riscaldamento globale, esitando davanti ai costi iniziali, porta a una risposta collettiva ancora troppo lenta. Ogni ulteriore ritardo aumenta i costi futuri e rende alcuni impatti irreversibili».
Due scenari a confronto: l’azione ora o la crisi economica futura
Lo studio esplora due scenari: uno in cui l’inazione porta a un aumento della temperatura di oltre 3°C entro il 2100 e uno in cui sforzi finanziari e investimenti entro il 2% del PIL riescono a contenere il riscaldamento entro i 2°C. Nel primo caso, le perdite economiche globali potrebbero ridurre la crescita annuale di 0,4 punti percentuali, mentre, nel secondo scenario, limitando il riscaldamento, le perdite scenderebbero tra l’11% e il 13% del PIL. Anche un obiettivo sotto i 2°C richiederà investimenti in adattamento, ma tali costi, inferiori all’1% del PIL globale, permetterebbero di risparmiare perdite economiche più significative, fino al 4% del PIL.
Il paradosso dell’inazione e i rischi di una crisi irrimediabile
Nonostante la necessità urgente di azioni coordinate, lo studio identifica tre principali ostacoli: una visione incompleta dei costi economici dell’inazione, il peso disomogeneo del cambiamento climatico a livello globale e la tendenza dei governi a privilegiare il breve termine. Superare queste barriere richiederà una maggiore consapevolezza, l’adozione di politiche concrete e un coordinamento internazionale rafforzato.
Mentre i negoziati della COP29 entrano nel vivo, l’urgenza è palpabile: definire obiettivi finanziari chiari per la transizione ecologica e creare un percorso di decarbonizzazione condiviso sono azioni fondamentali per raggiungere gli obiettivi di Parigi. Tra gli scetticismi e le sfide politiche, la conferenza rappresenta un’ultima occasione per raddrizzare la rotta e evitare gli impatti peggiori di una crisi climatica ed economica su scala globale.