Pomodori che diventano bioplastiche, scarti di agrumi trasformati in tessuti, e perfino integratori alimentari nati dai residui della produzione di whisky: sono solo alcuni esempi dell’innovazione che caratterizza la bioeconomia circolare, tema al centro del nuovo libro del giornalista e blogger Mario Bonaccorso, Che cosa è la bioeconomia circolare, appena pubblicato da Edizioni Ambiente.
Ma cosa si intende esattamente per bioeconomia circolare? Il saggio di Bonaccorso offre una chiave di lettura chiara e approfondita sull’argomento, rispondendo a domande cruciali: chi ha introdotto il concetto? Esiste una definizione univoca o diverse interpretazioni? Qual è la differenza tra bioeconomia e bio-based economy, e come possiamo misurarne l’impatto?
Attraverso un approccio comparativo, Bonaccorso alterna dati concreti e interviste con esperti del settore, fornendo un quadro completo delle trasformazioni in atto. Dall’automotive all’alimentare, dall’edilizia al tessile, il libro indaga come le politiche pubbliche e le strategie industriali stiano evolvendo per favorire l’adozione di modelli produttivi basati su risorse rinnovabili. Particolare attenzione viene data ai Paesi leader in questo cambiamento, dove l’interconnessione tra economia, ambiente e società è ormai una realtà consolidata.
Ulteriore peculiarità del libro è l’analisi delle strategie adottate dagli enti pubblici negli ultimi anni. Bonaccorso offre una panoramica di come la bioeconomia circolare stia emergendo come settore economico in espansione, fornendo una guida utile non solo per chi è già inserito in questi settori, ma anche per chi desidera acquisire nuove competenze in un ambito in rapida crescita e che sta cambiando il volto della produzione globale.
«La bioeconomia circolare rappresenta un cambio di paradigma dirompente che ci consente di riconciliare la crescita economica e la creazione di posti di lavoro altamente qualificati con la tutela dell’ambiente e della salute umana e animale», precisa Bonaccorso. «Si tratta di un pilastro del Green New Deal, che nei soli quattro maggiori Paesi europei (Germania, Francia, Italia e Spagna) vale 1.700 miliardi di euro, ma che è incomprensibilmente assente dal PNRR in Italia e persino dal Rapporto Draghi sulla competitività in Europa».