Valutando la crescita globale del reddito pro capite e la conseguente espansione della classe media, la World Tourism Organization ha previsto che i viaggi internazionali possano raggiungere i due miliardi entro il 2030. Due miliardi. Si tratta di una cifra impressionante, specialmente se comparata ai numeri sorprendenti che già si registrano, soprattutto nel nostro Paese.
Come riportato dall’Agenzia Nazionale del Turismo (Enit) su dati Istat, lo scorso anno sono stati oltre 125 milioni gli arrivi nelle strutture ricettive in Italia (+5,5% sul 2022), di cui 62,2 milioni di turisti italiani (-1,9% sul 2022) e 62,8 milioni di turisti stranieri (+14,0% sul 2022).
Sempre nel 2023, l’Italia si è classificata in Europa come la seconda destinazione per presenze internazionali (e totali), appena dopo la Spagna e davanti alla Francia e alla Germania.
Il paradosso è che la nostra nazione, detentrice del maggior numero di siti inclusi nella lista dei patrimoni dell’umanità dichiarati dall’UNESCO (59, di cui 6 naturali e 53 culturali) sparsi ovunque, vede il 70% delle presenze internazionali in viaggio culturale concentrarsi in appena l’1% del suo territorio.
Ormai è sotto gli occhi di tutti: il turismo, oggi, porta con sé il pesante, odioso e pericoloso fardello dell’overtourism. Il fenomeno affonda le sue radici in pratiche di turistificazione aggressiva che hanno avuto inizio già nel secolo scorso ma, senza dubbio, in anni recenti, è stato nutrito abbondantemente da pacchetti turistici preconfezionati e da social media che invitano alla ricerca del selfie perfetto – sempre negli stessi luoghi e, spesso, persino (in modo inquietante), nelle stesse posizioni.
Questo fenomeno di turismo intensivo – tossico per il pianeta tanto quanto qualsiasi modello su larga scala volto alla massimizzazione della produzione – limita, fino ad annullarla, l’interazione autentica tra l’uomo e i luoghi, la connessione tra individuo e ambiente. Depreda e svuota del suo significato più profondo l’esperienza del viaggiare.
Tra le strategie per mitigare questa intollerabile congestione, l’estensione della stagionalità turistica attraverso l’organizzazione di eventi culturali distribuiti lungo l’arco dell’anno ha un ruolo di importanza cruciale; perché non solo diversifica i flussi dei visitatori ma arricchisce l’intero tessuto culturale, sociale ed economico locale. Ancora più significativa è però la valorizzazione delle aree meno note: di quei luoghi di straordinaria bellezza e ricchezza, vittime di un progressivo abbandono (e stato di abbandono) causato dalla concentrazione dei visitatori nei centri urbani più noti. Viaggiare in queste mete oggi è un atto rivoluzionario. Perché significa dare spazio alla lentezza in un mondo frenetico che non dà né tempo né modo di assaporare bellezza, sapori, profumi e dettagli. Significa essere slow in una realtà dove tutto – dal cibo alle esperienze – è fast. Significa prediligere forme di turismo che rispettano le dinamiche locali, senza sovvertirle; che ascoltano e valorizzano le prospettive e gli interessi delle comunità di accoglienza, senza snaturarli. Significa contribuire alla tutela e alla salvaguardia di saperi tradizionali, troppo frequentemente coperti dalla omologazione dettata dalla velocità.
Da questa idea di turismo nasce il progetto “Il Cammino delle Terre della Dieta Mediterranea”: un percorso che vuole allenare al “vivere mediterraneo” che, snodandosi tra la costa e le colline cilentane, educa il viaggiatore alla lentezza e alla scoperta. Questo itinerario, seguendo le orme delle antiche civiltà Greco-Romane, collega i siti storici di Poseidonia/Paestum ed Elea/Velia, proponendo un viaggio esplorativo attraverso sette dimensioni fondamentali: l’antropologia del popolo cilentano, la filosofia occidentale, la cultura enogastronomica, l’archeologia, il paesaggio, le esperienze multisensoriali di benessere e il concetto di lentezza. Sono esperienze come queste a costruire strade verso un turismo lento e sostenibile; a creare modelli che, superando le esigenze del mercato, valorizzano l’identità, l’appartenenza culturale, la tradizione.
A tal riguardo, un’altra tra le forme più interessanti di questo turismo lento, rispettoso e di qualità, concentrato sui borghi meno noti e – dato da non sottovalutare – sulle storie personali, è il turismo delle radici. Si tratta di un fenomeno in crescita che vede individui da tutto il mondo – 80 milioni secondo l’Agenzia Nazionale del Turismo – ritornare nei luoghi di origine delle loro famiglie. Che sia un “nostalgico” di prima generazione con un forte legame con l’Italia, o uno di seconda generazione, alla ricerca di una connessione più profonda con le sue origini, il turista delle radici diventa sempre ambasciatore globale delle ricchezze culturali di quel territorio, contribuendo a valorizzarlo enormemente. È per questo che nell’anno dedicato al turismo delle radici, nel nostro Paideia Campus di Pollica abbiamo voluto proporre un Boot Camp alla riscoperta delle radici culturali italiane – Back to the Roots –, che offrisse ad adolescenti italodiscendenti nel mondo, non solo la possibilità di conoscere la propria storia, ma anche di immergersi in un modello di sviluppo ecologico integrale – quello dello stile di vita mediterraneo – che armonizza naturalmente le tradizioni del passato con le urgenze presenti e future dello sviluppo sostenibile, e in un territorio – quello di Pollica, da anni città slow – che pone la lentezza, la calma e il silenzio come valori essenziali.
Orwell scrisse che in tempi di menzogna universale, dire la verità è un atto rivoluzionario. Se, come credo, la velocità è una menzogna che troppo spesso copre la realtà – dei luoghi, dei territori, delle persone – allora oggi, tornare (lentamente) alle radici è una rivoluzione.