Il cambiamento climatico non è solo una minaccia futura, ma una realtà che sta già influenzando la vita di milioni di persone in tutto il mondo. Mentre spesso ci concentriamo sugli effetti diretti come l’aumento del livello del mare e le catastrofi naturali, sempre più evidenza emerge sulle sue conseguenze più ampie, tra cui il crescente impatto sulle migrazioni umane.
Da quando Norman Myers ha teorizzato il legame tra cambiamento climatico e migrazioni, sempre più ricerche e organizzazioni internazionali confermano la sua visione. Secondo l’International Displacement Monitoring Centre (IDMC), gli effetti del cambiamento climatico stanno già causando un aumento degli spostamenti- tecnicamente ricollocamenti- in tutto il mondo in risposta ad eventi come la desertificazione, l’aumento delle temperature e la perdita di biodiversità che rendono alcune regioni del Pianeta sempre più inospitali.
La UN Refugee Agency (UNHCR) avverte che senza azioni decisive sul clima, il numero di sfollati potrebbe raddoppiare entro il 2050, raggiungendo circa 200 milioni di persone. Ad oggi le persone che ogni giorno lasciano la loro casa per motivi legati al cambiamento climatico sono 40 al minuto, in tutto il mondo.
I cambiamenti climatici non sono – e non saranno – uguali per tutti nonostante le modificazioni già in atto nell’atmosfera che, senza un’inversione di rotta, porteranno a scenari globali sempre più drammatici. È una questione dipendente dalla complessità di variabili ambientali e sociali che si intrecciano provocando trasformazioni radicali, in un ricorrente rapporto causa- effetto: dall’innalzamento delle temperature e dalla perdita e la dissoluzione dei servizi ecosistemici, all’impoverimento dei suoli e all’accaparramento delle risorse, fino ai conflitti, alle prevaricazioni sociali e alle persecuzioni politiche, etniche e religiose, eccetera.
Una partita complessa ma con un’unica costante: sono sempre i Paesi poveri e i poveri dei Paesi ricchi a pagare il prezzo più alto e a rischiare di più, ora, uniti in questa relazione che affonda le radici nelle disuguaglianze delle società umane e nelle nuove disuguaglianze che si aggiungono giorno dopo giorno.
Migrare diventa troppo spesso l’unica risposta a queste complessità che gli uomini e le donne mettono in atto per potersi assicurare un futuro migliore e anche la sopravvivenza. Secondo il report Global Trends dell’UNHCR, infatti, nel 2022, 108,4 milioni di persone (il 41% delle quali sono minori) sono state costrette a migrare, numero più che raddoppiato rispetto a quello riportato per il 2010 (43,7 milioni) e cresciuto di oltre il 40% anche solo rispetto al 2018 (71,8 milioni). Nonostante numeri così alti e nonostante le analisi delle ONG parlino sempre più di crescita esponenziale del numero di persone costrette ad abbandonare il proprio luogo di vita per i disastri ambientali e climatici o a causa di un mix di stress ambientali, economici e sociali, non esiste una rilevazione quantitativa del migrante ambientale e climatico perché questa figura non è riconosciuta nella legislazione internazionale.
Stando ai dati raccolti dall’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), durante il 2020, 30 milioni e 700 mila persone sono state obbligate a fuggire a causa di disastri ambientali; 30 milioni di persone che non troveranno mai protezione, che non saranno mai riconosciuti come rifugiati perché i motivi ambientali ancora non sono identificati come un motivo di migrazione dalla Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato.
Secondo l’ultimo report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), i cambiamenti climatici stanno già interessando tutte le regioni del Pianeta, anche se con impatti e modalità diverse, le probabilità di eventi estremi e cambiamenti ambientali di lungo termine, irreversibili per secoli e se non per millenni, aumenterà con il riscaldamento globale. In ogni scenario esplorato nel Rapporto, la temperatura media aumenterà almeno fino a metà secolo ma, nello scenario migliore (quello con l’azzeramento delle emissioni climalteranti entro il 2050), si potrebbe ancora contenere l’aumento delle temperature entro i +2°C.
PROFUGHI, RIFUGIATI, MIGRANTI AMBIENTALI
Nonostante tutte le evidenze di cui sopra, sembra però che il tema fatichi ancora a entrare nelle agende politiche: risale al 1976 la definizione di “profugo ambientale”.
Il termine “rifugiato ambientale”, invece, compare per la prima volta in maniera ufficiale nel 1985, in un rapporto dell’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) per il quale, “i rifugiati ambientali sono quelle persone che sono state costrette a lasciare il loro habitat tradizionale, temporaneamente o permanentemente, a causa di un forte dissesto ambientale (naturale e/o provocato dalle persone) che ne ha compromesso l’esistenza e/o ha gravemente compromesso la qualità della vita”.
Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), quindi, “i migranti ambientali sono persone o gruppi di persone che, principalmente a causa di un cambiamento improvviso o progressivo dell’ambiente che influisce negativamente sulla loro vita o sulle loro condizioni di vita, sono obbligati a lasciare le loro case abituali, o scelgono di farlo, sia temporaneamente sia permanentemente, e si spostano all’interno del loro Paese o all’estero”.
Tutto questo, come detto, sta già accadendo. Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre, infatti, il 95% dei conflitti registrati nel 2020 sono avvenuti in Paesi ad alta o altissima vulnerabilità ai cambiamenti climatici e degrado ambientale. Ne è un esempio la guerra civile siriana che ha creato in dieci anni 6 milioni e 700 mila sfollati interni, collegata agli impatti del cambiamento climatico, in particolare sulla disponibilità idrica e a causa di un lungo periodo siccitoso che ha colpito la regione dal 2007 al 2010. Partendo da un “innesco climatico”, l’intreccio di una serie di fattori complessi come le tensioni religiose, sociali e politiche, il deterioramento delle condizioni economiche dovute anche a scelte sbagliate nella gestione del territorio hanno portato al conflitto.
Queste migrazioni rappresentano oggi una o meglio la strategia di adattamento delle comunità alle sfide ambientali quando le misure di mitigazione e adattamento non sono più sufficienti. Tuttavia, è importante notare che le migrazioni indotte dal cambiamento climatico sono principalmente interne e concentrate nei paesi del Sud Globale, dove le disuguaglianze economiche e sociali rendono le popolazioni particolarmente vulnerabili. Africa, Asia e America Latina sono le aree più colpite.
Le mappe si sovrappongono, le catastrofi ambientali pure e ancora oggi, nonostante un grido allarmante dell’ambiente e delle persone, non esiste una tutela per il migrante climatico, dove la sfida climatica si sovrappone a vulnerabilità preesistenti relative, per esempio, alla salute o alle diseguaglianze socioeconomiche o di genere.
Spesso le comunità che subiscono in maniera significativa gli effetti della crisi climatica sono anche tra quelle più attive nella lotta per il contrasto al cambiamento climatico. È già successo, ad esempio, alle comunità indigene che combattono lo sfruttamento del territorio e il conseguente rischio di sfollamento nel caso della Dakota Access Pipeline, l’oleodotto nel North Dakota che minaccia le terre delle popolazioni Sioux e il fiume Missouri. Un altro esempio è l’attivismo dei rappresentanti di alcuni Stati insulari del Pacifico che rischiano di essere sommersi a causa dell’innalzamento del livello del mare: le loro proteste alle conferenze internazionali sul clima hanno fatto il giro del mondo. Queste comunità, creano reti e trasmettono esperienze utili ad altri Paesi che presto fronteggeranno sfide simili.
LA QUESTIONE DI GENERE
La mancanza di risorse amplifica così le disparità di genere; i dati delle Nazioni Unite ci dicono che circa l’80% dei migranti climatici sono donne. Sebbene questa stima sia incerta, considerata la difficile definizione di migrante climatico, resta il fatto che le conseguenze negative dei cambiamenti climatici colpiscono di più il sesso femminile.
Secondo le Nazioni Unite, le donne dipendono maggiormente dalle risorse naturali minacciate dal cambiamento climatico. In tutto il mondo, le donne rappresentano circa il 43% della forza lavoro in agricoltura. In Asia e Africa, questa percentuale è più alta, spesso superiore al 50%. In contesti climatici estremi, le donne hanno maggiori probabilità di soffrire di insicurezza alimentare rispetto agli uomini, secondo un insieme di 130 studi condotti dalla Global Gender and Climate Alliance.
LA TERMINOLOGIA
Una questione dibattuta è la terminologia da utilizzare per identificare coloro che migrano a causa del cambiamento climatico. Se il termine “rifugiati climatici” è popolare, proposto da Biermann e Boas nel 2008, la IOM propone “migranti ambientali” per evitare confusioni con la definizione legale di rifugiato della Convenzione di Ginevra del 1951. Tuttavia, alcune comunità colpite, come quelle del Pacifico, respingono queste categorie, focalizzandosi piuttosto sulla necessità di fermare il cambiamento climatico.
A livello normativo, la mancanza di una definizione legale di “rifugiato climatico” rende la categoria invisibile di fronte al diritto internazionale. La Convenzione di Ginevra del 1951 non include il cambiamento climatico come causa di rifugio, e il sistema di asilo dell’Unione Europea non è attrezzato per affrontare questo fenomeno.
Anche se ci sono iniziative delle Nazioni Unite come la Nansen Initiative e il Global Compact on Migration, e studi come il progetto CLICIM, mancano ancora degli obblighi di protezione vincolanti per gli Stati.
Secondo la stessa OIM, con lo scopo di catturare la complessità del tema, la definizione di “migrante ambientale” riconosce che:
- i migranti ambientali non si spostano solo davanti a eventi climatici estremi, ma anche in seguito al lento deterioramento delle condizioni ambientali;
- i movimenti possono verificarsi sia all’interno che all’esterno dei confini nazionali;
- la migrazione è sia a breve che a lungo termine;
- gli spostamenti che affondano le radici in tematiche ambientali possono essere sia forzati che volontari.
A tal proposito la definizione deliberatamente vaga di migrante ambientale indica che la mobilità legata alla crisi climatica può essere di più tipologie: temporanea o permanente, forzata o volontaria, interna o internazionale, individuale o collettiva.
Per l’OIM, inoltre, le migrazioni possono essere causate sia da processi lenti come l’innalzamento dei mari e delle temperature o l’impoverimento del suolo, quanto da eventi improvvisi come cicloni, tsunami, eccetera, esacerbati fra l’altro dagli effetti dei cambiamenti climatici.
Nel 2010 con gli accordi di Cancun si è provato a dare una definizione valida a livello internazionale, partendo da tre diversi tipi di “mobilità causata dal cambiamento climatico”: dislocamento, migrazione, rilocazione pianificata.
Il primo si riferisce soprattutto agli spostamenti determinati da “situazioni in cui la gente è costretta a lasciare case o abitazioni a causa di un disastro o per evitare l’impatto di un rischio naturale immediato e prevedibile”, secondo le Nazioni Unite.
La migrazione climatica descrive un movimento di persone che è causato da un evento improvviso o progressivo che dipende dalla crisi climatica.
La rilocazione programmata, invece avviene nel contesto di “disastri o degrado ambientale, inclusi quelli causati da effetti dei cambiamenti climatici, un processo pianificato in cui persone o gruppi di persone si trasferiscono o sono assistite nel trasferimento dalle loro case verso luoghi nuovi, e vengono date loro le condizioni per ricostruire le proprie vite” per l’UNHCR.
La rilocazione è un processo lungo da implementare in tutti gli aspetti della vita delle persone finché queste non hanno più bisogni o vulnerabilità connesse allo spostamento. È un fenomeno che accade soprattutto in alcuni atolli in cui l’innalzamento dei livelli del mare rende già impossibile la vita umana.
In definitiva, mentre il dibattito sulla terminologia va avanti, il gap normativo persiste e il cambiamento climatico continua a colpire sempre più persone, creando una nuova categoria di sfollati che richiede risposte globali e urgenti.
Le narrazioni dominanti intorno alla figura degli sfollati climatici hanno in comune la pressoché totale assenza di uno spirito costruttivo ed empatico. Eppure, le persone che migrano portano con sé conoscenze potenzialmente preziose per mettere in campo strategie di adattamento, al punto che in un suo policy brief l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha analizzato il ruolo delle persone che migrano o di quelle che già si sono stabilite in nuovi Paesi.
Per contrastare la retorica paralizzante e negativa della persona migrante che viene vista esclusivamente come problema, è fondamentale approcciare la tematica in modo proattivo. Ad esempio, è possibile considerare gli sfollati climatici e le persone migranti in generale come “esperti” delle vulnerabilità vissute e possibili “sentinelle” di un futuro che potremmo vivere anche noi? Cosa possiamo imparare a queste storie di migrazione per ripensare strategie di inclusione e di adattamento?
La migrazione è il più grande processo di trasformazione che un popolo può attraversare dopo una rivoluzione. Abbiamo una grande necessità di confrontarci con l’esperienza della migrazione, maggiormente se climatica, per avere uno sguardo e una postura nuovi verso la società. È l’occasione per la società ricevente di guardarsi allo specchio e trovare delle soluzioni concrete e reali.