In un mercato in rapida evoluzione dove prodotti e servizi spesso sono simili per prestazioni e prezzo, cresce l’interesse delle imprese a comunicare il proprio impegno sociale e ambientale. La sostenibilità sta infatti diventando sempre di più un fattore che può condizionare la scelta d’acquisto: diverse ricerche hanno evidenziato che oggi i consumatori comprano prodotti o servizi anche per i valori dell’organizzazione che li propone.
Naturalmente più aumentano le campagne che valorizzano l’impegno delle aziende più crescono i casi di -washing in particolare di social washing. Così come il greenwashing, anche questa è una pratica utilizzata per dare agli stakeholder un’immagine dell’organizzazione migliore rispetto alla realtà. Per esempio, l’impresa può raccontare di avere investito per il benessere dei dipendenti o della comunità senza che questa dichiarazione corrisponda ad un effettivo cambiamento nella relazione con le persone.
Il rischio di social washing
L’accusa di social washing può mettere l’azienda nella condizione di difendersi e di dover rispondere alla richiesta di rendicontare i risultati ottenuti grazie alle proprie attività. L’organizzazione deve quindi dimostrare di aver definito programmi coerenti con i principi che dichiara e di aver realizzato iniziative ed azioni concrete. Oltre alla coerenza si chiede all’impresa di prendere posizione su argomenti sensibili solo quando sono condivisi e non per allinearsi al trend del momento.
Valutare l’impatto generato sulla comunità e sulle persone che la abitano non è sempre facile: mentre la misurazione dell’impatto ambientale ha strumenti e indicatori conosciuti, è ancora difficile valutare le ricadute in ambito sociale. Anche per questo è urgente definire metriche e strumenti condivisi per la misurazione e la valutazione dell’impatto sociale.
Dal pink washing all’health washing
Si parla di pink washing quando un’organizzazione racconta di essere solidale nei confronti delle donne e a favore dell’emancipazione femminile ma a fronte di questa dichiarazione non esiste un reale impegno. Purtroppo in questi casi l’obiettivo è migliorare le vendite o l’immagine dell’impresa facendo leva sul desiderio di giustizia e di inclusività delle persone. Il fenomeno è trasversale a settori diversi e i consumatori si sono talmente abituati a questi messaggi che raramente si chiedono se l’impegno dell’impresa è reale e se, per esempio, l’organizzazione sta riducendo il gender gap o facilitando la presenza di donne ai livelli apicali.
Negli ultimi anni sono nati altri neologismi per indicare comportamenti delle organizzazioni che gli stakeholder giudicano scorretti. Per esempio si definisce rainbow washing “l’atto di utilizzare i colori dell’arcobaleno per indicare il progressivo supporto per l’uguaglianza LGBTQ+, acquistando credibilità da parte dei consumatori, ma con il minimo sforzo o risvolto pragmatico”. In questo caso vengono messe sotto accusa le imprese che realizzano prodotti o campagne con messaggi di inclusività durante il mese del Pride senza averlo mai fatto prima.
Ma esistono altre varianti di washing come per esempio il bee washing, quando un’azienda dichiara di essere attenta all’ambiente e amica delle api solo perché ha posizionato un alveare sul tetto. Oppure si può parlare di circular washing quando l’azienda realizza azioni che apparentemente hanno una ricaduta positiva per l’ambiente ma non racconta se sta modificando processi e prodotti secondo i principi dell’economia circolare.
Si parla invece di health washing quando una campagna vuole far apparire un prodotto più sano di quanto non sia in realtà. In questi casi vengono utilizzate parole e immagini riconducibili allo star bene per raggiungere persone interessate a scegliere prodotti salutari, oppure vengono realizzate campagne che mettono in cattiva luce la dieta vegetariana o vegana per sostenere l’idea che il regime alimentare migliore è quello basato sul consumo di carne. Come giustificazione di questa posizione si fa riferimento al fatto che gli uomini della preistoria, grazie a una dieta quasi totalmente a base di carne, erano in grado di affrontare situazioni difficili e combattere ogni tipo di avversario. Un’interpretazione assurda che però può far presa su un consumatore culturalmente debole e non preparato.
È facile immaginare che nasceranno presto nuovi neologismi come, per esempio, system washing ad indicare un cambiamento che viene raccontato come sistemico ma non lo è, oppure COP washing come è accaduto durante la COP28 di Dubai.
Il greenhushing, un problema reale
Ma c’è un pericolo che allarma più dei diversi washing: è il greenhushing, il “silenzio verde”, un fenomeno in aumento in particolare tra grandi aziende americane. Alcune organizzazioni scelgono infatti il silenzio nel tentativo di evitare controlli e accuse di greenwashing. E proprio perché non “parlano” risulta difficile scoprire chi ha scelto questa strada ed è impossibile riuscire a valutare gli eventuali progressi messi in atto per andare verso modalità di produzione più sostenibili.
In qualche caso quella del greenhushing può essere una decisione presa in buona fede: per esempio, quando un’azienda ha appena avviato un percorso di sostenibilità e teme di non aver ancora fatto abbastanza per promuoversi come sostenibile.
In generale possiamo dire che il greenhushing è un paradosso: per non correre rischi, l’impresa nasconde quello che potrebbe rappresentare un punto di forza. Purtroppo se il fenomeno si diffonderà il problema sarà quello di veder aumentare la diffidenza degli stakeholder e lo scetticismo dei consumatori.
La professionalità non deve essere sottovalutata
Comunicare valori, strategie, impegni non è facile e quindi aumenta il rischio di proporre un messaggio sbagliato. L’importante è non cedere all’improvvisazione e per cercare di non fare errori valutare bene prima di decidere “cosa” comunicare e non solo “come” comunicare: una riflessione che deve riguardare i contenuti, le parole, le immagini, gli strumenti, i tempi, gli investimenti utili per realizzare una comunicazione efficace.
I rischi aumentano se chi comunica non ha competenze adeguate. Bisogna saper comunicare l’impegno dell’impresa in modo chiaro perché le persone vogliono saperne di più per esempio sulla gestione della catena di fornitura o sulla correttezza del processo produttivo.
La vera sfida per chi deve raccontare la sostenibilità di un’organizzazione è riuscire a comunicare in modo nuovo e sempre più efficace valori, ma soprattutto azioni concrete.
Per concludere: tutti i nodi vengono al pettine
I rischi per le imprese che utilizzano la sostenibilità in modo strumentale sono due: il primo problema sarà l’esclusione dal mercato anche a causa di leggi e regolamenti sempre più severi e un secondo sarà quello di essere accusate di praticare un ecologismo di facciata.
Il mercato sta cambiando e per tante imprese diventerà obbligatorio nei prossimi anni rendicontare l’impegno sociale e ambientale. Si tratta di un cambiamento importante che spingerà molte organizzazioni a definire strategie di sostenibilità e a comunicarle in modo convincente. Trasparenza, coerenza, affidabilità saranno fondamentali per poter essere inseriti in catene di fornitura sostenibili e partecipare a gare pubbliche o private.
Per evitare il secondo problema, quello di essere accusate di washing, il modo migliore è essere trasparenti nel rapporto con gli stakeholder. In particolare la collaborazione con alcuni portatori di interessi può consentire all’impresa di mettersi, almeno in parte, al riparo da attacchi sul fronte della sostenibilità.
Smascherare ogni pratica di washing deve essere un impegno non solo dei consumatori e delle istituzioni ma anche delle imprese che sono realmente sostenibili. In questo processo sarà importante anche il ruolo della finanza: gli investitori spingeranno le imprese a diffondere maggiori dati e informazioni per poter valutare se i rischi sociali sono gestiti in modo corretto.
Anche comunicatori e giornalisti devono fare la loro parte: i comunicatori prima di definire una strategia di comunicazione dovrebbero approfondire la conoscenza del cliente; i giornalisti valutare con attenzione dati e informazioni ma soprattutto verificare le fonti. Perché chi lavora nel mondo della comunicazione ha una responsabilità ancor più grande.
Lo sappiamo, le organizzazioni perfette non esistono: quello che si chiede in particolare alle imprese è di non nascondere difficoltà, ostacoli, eventuali contraddizioni e di avere una ragionevole coerenza tra il dichiarato e l’agito.