Nel vasto panorama della ricerca accademica, il suo lavoro si distingue per la capacità di analisi dei comportamenti umani legati alla salute e al consumo alimentare. Spesso ospite di queste pagine con riflessioni attente e puntuali, Guendalina Graffigna è un faro nel mare delle questioni relative all’”engagement”, il coinvolgimento attivo delle persone nelle proprie decisioni riguardanti benessere e alimentazione.
Professoressa di Psicologia dei Consumi e della Salute all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Cremona, Graffigna dirige l’EngageMinds Hub, il primo Centro di ricerca italiano multidisciplinare dedicato allo studio e alla promozione dell’engagement.
L’attività di ricerca, formazione e consulenza del Centro poggia sulla sinergia interdisciplinare tra la Facoltà di Psicologia e la Facoltà di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Grazie alla collaborazione di esperti provenienti dai più diversi settori scientifici, nazionali e internazionali, EngageMinds Hub si differenzia per l’approccio olistico e innovativo con cui affronta le sfide legate alla promozione della salute e dei comportamenti alimentari consapevoli.
Su quali presupposti e con quali obiettivi è nato EngageMinds Hub?
«EngageMinds Hub nasce da una parte dalla constatazione dell’importanza scientifica di favorire il coinvolgimento dei pazienti nei loro percorsi di cura e, dall’altra, da un capitale di ricerca scientifica che abbiamo iniziato a condurre a partire dal 2010. L’obbiettivo era ed è tuttora cercare di capire che cosa c’è alla base delle scelte delle persone di essere meno deleganti rispetto al loro sistema di cura e di diventare attori protagonisti del proprio percorso. Abbiamo iniziato quindi a parlare di patient engagement. All’epoca la letteratura su questo argomento stava avanzando a piccoli passi negli Stati Uniti, erano per di più studi di economia sanitaria e di scienze politiche, ovvero studi molto pragmatici che andavano a contare i comportamenti di attivazione. Da qui noi come gruppo di psicologi di EngageMinds Hub abbiamo incominciato ad interrogarci su quali potessero essere i fattori mentali che favorissero un cambiamento sia comportamentale sia identitario da passivo a proattivo nel sistema di cura della persona. Da questi studi piano piano abbiamo compreso come ci fosse un bisogno ampio di ricerca che non riguardasse solo i pazienti ma tutto il sistema di persone che ruotava intorno a loro: i care-giver, i medici, gli operatori sanitari e i policy maker volti a sostenere un cambiamento culturale verso una medicina sempre più partecipativa. Così nel 2017 abbiamo deciso di fondare questo centro di ricerca dedicato al patient engagement che poi nel 2018 è stato esteso anche al tema del consumer engagement, cioè di come anche prima di essere pazienti sia importante attivarsi in tutte le proprie condotte e stili di vita e quindi da qui c’è stata un’estensione anche degli studi sul coinvolgimento attivo dei cittadini-consumatori nella filiera agroalimentare. Ciò che comunque ci caratterizza come psicologi è che lavoriamo in ambito multidisciplinare interrogandoci su cosa sta alla base del desiderio di attivarsi e di partecipare attivamente, di diventare protagonisti del proprio stile di vita, delle proprie scelte nella salute e nei consumi alimentari».
Attraverso quali strumenti si sviluppa il vostro lavoro sull’engagement delle persone?
«Utilizziamo le teorie e i metodi della ricerca psico-sociale applicata ai processi di partecipazione ed engagement. Facciamo ricerca scientifica di base per sviluppare degli indicatori di misura dei livelli di coinvolgimento, di engagement e involvement dei diversi attori e stakeholder sia della filiera sanitaria che di quella agroalimentare, ma siamo anche esperti in metodologie partecipative volte a facilitare lo scambio co-creativo, il raggiungimento di un consenso e anche i processi innovativi in questi due settori. Come metodologia partecipativa sviluppiamo processi che permettono di fare una sorta di mediazione culturale tra il mondo laico, che è quello dei pazienti e dei consumatori, target a cui si rivolge l’innovazione scientifica, e dall’altra parte i ricercatori e gli scienziati, i tecnici e gli esperti. È per questo motivo che il centro si chiama EngageMinds Hub: MINDS perché la nostra matrice scientifica è di natura psicologica, ENGAGE perché ci occupiamo verticalmente di questo concetto, fenomeno psicosociale del coinvolgimento attivo nelle sue diverse forme e per i diversi attori, e HUB proprio perché il centro vuole essere un luogo di incontro e di scambio e collaborazione tra stakeholder di mondi diversi. In particolare, come dicevo, tra il mondo della scienza e della tecnologia con il mondo della società laica, ma poi anche quello dei professionisti sanitari, dei pazienti, delle associazioni e dell’ambito farmaceutico».
Nel contesto delle complesse policrisi globali (sanitaria, climatica, economica, geopolitica) che stiamo vivendo dalla pandemia del Covid ad oggi, come sta cambiando il rapporto dei consumatori – specie in Italia – con i prodotti alimentari e la cura della salute? C’è davvero – come diverse ricerche affermano – una maggiore attenzione al benessere psico-fisico, alla sostenibilità dei prodotti alimentari che si scelgono e alle pratiche antispreco?
«Tutte le crisi che abbiamo affrontato in questo ultimo periodo hanno creato una situazione di profonda incertezza nella popolazione in generale e anche l’occasione di una rivalutazione di quelli che sono i set valoriali personali. Sulla base del nostro Engagement Monitor vediamo effettivamente alcune tendenze. Innanzitutto una maggiore valorizzazione del ruolo della salute. La salute da sempre nel dichiarato degli italiani era qualcosa di importante, ora è al primo posto unita ad una maggiore voglia di proattività nella promozione del proprio benessere insieme anche a una visione della salute interpretata in un’ottica di una salute più globale. Una salute quindi che riguarda non soltanto un’assenza di malattia ma un benessere psico-fisico e un equilibrio che va oltre, cioè come affermazione di un progetto personale che diventa sintonico con l’ecosistema. Tratteggiamo un atteggiamento sempre più orientato verso quella che tecnicamente si chiama “One Health”, che ovviamente i cittadini non chiamano così ma che è in linea con quelle che sono le nuove tendenze della riflessione scientifica, cioè di una maggiore attenzione all’ecosistema e alla visione della salute delle persone come anche strettamente correlata alla salute del sistema animale e ambientale. In questo senso si inserisce anche l’attenzione verso la sostenibilità resa più saliente in tutta la popolazione a partire dai giovani, e via via nelle fasce più mature, dal movimento di Greta Thunberg in poi, ma anche dalla crisi climatica e da tutte le vicende ambientali che sono state purtroppo sotto gli occhi di tutti, dalle micro alle macro: la poca neve che cambia le tempistiche anche della stagione sciistica così come le grandi catastrofi ambientali. Tutto questo, da una parte sta spaventando profondamente le persone, aumentando il loro senso di incertezza, e dall’altra però sta insinuando il desiderio di essere anche in questo caso più attori protagonisti e fare qualcosa per contribuire all’ambiente. Questa è una tendenza molto in luce e di fatto però la vediamo emergere di più in alcune fasce della popolazione, le più giovani e le élite che sono tendenzialmente più informate e più preoccupate per questi aspetti. C’è in effetti un aumento dei comportamenti sostenibili nella stragrande maggioranza della popolazione. Un conto però è dichiarare l’importanza della sostenibilità ambientale, un conto è metterla in pratica».
Cos’è, come funziona e quali risultati significativi ha sinora prodotto il vostro Engagement Monitor?
«L’Engagement Monitor è una ricerca continuativa partita nel 2020 nel momento di picco della pandemia e viene effettuata su un panel rappresentativo della popolazione italiana. È un po’ un termometro per andare a vedere come stanno cambiando comportamenti, atteggiamenti e opinioni degli italiani rispetto al loro coinvolgimento attivo nella gestione della salute e nella prevenzione, nelle loro scelte e condotte alimentari e nei loro comportamenti economici e di sostenibilità ambientale. Il risultato principale in questi anni è stato proprio quello di essere sì una ricerca scientifica ma al servizio di tutti gli stakeholder, dai cittadini ai policy maker, agli operatori sanitari, alle industries. Il nostro Monitor non vuole portare soltanto dati statistici-comportamentali, ma vuole offrire delle chiavi di lettura delle ragioni di alcuni comportamenti e atteggiamenti soprattutto quelli che appaiono più paradossali. Per fare un esempio, durante la pandemia siamo riusciti a predire che ci sarebbe stato un tasso di esitanza molto alto agli inizi della campagna vaccinale (il 40%), come poi è effettivamente avvenuto. Poi sappiamo che l’esitanza vaccinale si è ridotta anche con delle misure che in qualche modo hanno fortemente motivato le persone. Altri dati che riusciamo a prevedere sono le preoccupazioni anche economiche delle persone, gli orientamenti agli investimenti: avevamo preannunciato come la guerra in Ucraina avrebbe fortemente spostato le preoccupazioni degli italiani portando a congelare un po’ i comportamenti di consumo e gli investimenti. Stiamo vedendo come stanno cambiando gli orientamenti nei consumi in un’ottica sempre più One Health e come l’attenzione per il benessere animale stia diventando un fattore sempre più determinante. Diciamo quindi che il Monitor è uno strumento molto duttile e flessibile che va a vedere come in qualche modo gli umori e gli aspetti psicologici si modificano negli atteggiamenti degli italiani. Crediamo che questi indizi possano essere molto importanti anche per orientare le iniziative di comunicazione, di educazione e di intervento delle organizzazioni».

Veganesimo, vegetariesimo, cibi “senza”, functional Food: cosa ci rivelano questi nuovi trend di consumo e habit alimentare?
«Ci dicono di quanto oggi il consumatore voglia essere più protagonista delle sue scelte e quindi agirle in modo tale che siano sempre più coerenti con il proprio sistema valoriale e anche politico. Ci dicono di come l’alimentazione sia fatta anche di psicologia e sempre di meno sia soltanto legata al “mangiamo per sostentamento”. Mangiamo anche per comunicare agli altri chi siamo e quali sono i nostri valori e talvolta per fare attività di advocacy politica, per dare dei messaggi per convincere gli altri. Ci dicono anche di come l’alimentazione sia un’area di progettazione di sé, di progettazione identitaria in un mondo sociale che non ha più punti di riferimento istituzionali fissi. Le istituzioni classiche, la scuola e la famiglia per esempio, oggi non sono più quei riferimenti cristallini per la società odierna: è tutto più fluido e flessibile e questo stato di cose apre alla possibilità di accettare e includere diversi percorsi di vita e valoriali: questo se da un lato è un bene per le diverse espressioni di sé, dall’altro il portato negativo sul piano psicologico è che c’è una forte incertezza, una forte solitudine, una perdita di punti di riferimento dati per scontati. Tutto viene quindi messo un po’ più in discussione per cercare nuovi ancoraggi. Talvolta – tra virgolette – per trovare delle nuove fedi, perché anche queste tendenze alimentari soprattutto quando parliamo di veganesimo e di scelte vegetariane, diventano in alcuni casi espressioni di un credo che si difende profondamente. Alimentazione, dunque, come un contesto sempre più pregnante della nostra vita anche dal punto di vista psicologico e psicosociale dove ci progettiamo, dove dichiariamo chi siamo, dove cerchiamo una maggiore coerenza con i nostri valori, dove facciamo delle battaglie anche politiche o istituzionali, dove cerchiamo sempre di più di trovare un bilanciamento tra piacere e senso del dovere, pensiamo per esempio alle scelte di consumi più sostenibili. Cerchiamo infine di appagare e di pacificare anche i nostri sensi di colpa».
Con il progetto GoldenAge vi siete occupati di persone anziane per l’aspetto che riguarda la prevenzione alimentare e le condizioni di malnutrizione di questa fascia di popolazione. Quale tesi avete portato avanti e siete riusciti a dimostrare con questo progetto?
«È stato un progetto multidisciplinare realizzato in collaborazione con la Camera di Commercio di Cremona e finanziato da Regione Lombardia che ha identificato nella filiera GoldenAge una delle filiere innovative nell’ambito lombardo. Per filiera intendiamo un percorso “farm to fork”, quindi dalla produzione alla tavola degli italiani, cucito esattamente sulle esigenze delle persone anziane. Non parliamo di nutrizione clinica e di supplementi nutrizionali per la cura delle patologie, parliamo piuttosto di persone che con l’avanzare dell’età hanno esigenze specifiche per rafforzare il proprio sistema immunitario con un apporto proteico sufficiente e per combattere la sarcopenia e che richiedono anche supporti specifici: per esempio sul packaging dei prodotti per riuscire a manipolarli meglio o sui processi distributivi perché la mobilità è diminuita. Ma richiedono anche dei supporti per combattere quelle emozioni negative dovute spesso all’isolamento e alla solitudine. Il progetto è stato co-creato insieme a cittadini e alle persone anziane e ha portato a prefigurare quali dovrebbero essere gli ingredienti fondamentali per una nuova filiera agroalimentare che metta a disposizione dei prodotti davvero disegnati sulle loro esigenze».
Carne coltivata, cibi sintetici, farina di grillo: come interpreta la chiusura del nostro Paese nei confronti dei novel food?
«La chiusura a queste innovazioni, come a tante altre non solo nel settore alimentare – vedi quello medico e diagnostico e scientifico in generale – è dovuta a un semplice fatto che in psicologia viene chiamato neofobia. Tutti noi siamo tendenzialmente chiusi nei confronti delle novità ovvero verso ciò che è in discontinuità con quelle che sono le nostre esperienze passate. Esistono variazioni a seconda delle personalità degli individui, ma in linea generale tendiamo un po’ tutti ad essere ostili al nuovo perché ci spaventa e perché siamo portati ad essere più tradizionali, anche un po’ più pigri e orientati a stare nel solco della continuità di ciò che conosciamo. Credo che nel prossimo futuro questa ostilità si potrà trasformare sulla base di quanta comunicazione verrà fatta per rendere più familiare questo tipo di prodotti: più veniamo esposti a stimoli che ci rendono più vicini a questo genere di alimenti e più tenderemo ad apprezzarli e valorizzarli».
In un suo intervento ha sottolineato come per una buona relazione tra scienza e società sia urgente investire nell’alfabetizzazione scientifica della popolazione, ma è altrettanto importante favorire spazi di dialogo e collaborazione tra cittadini ed esperti. Immagino che questo discorso valga anche per l’educazione al consumo alimentare?
«Sì, assolutamente. Amplierei il focus non parlando solo di consumi alimentari, ma tornando di nuovo sull’healthcare e sul tema del patient engagement che è prototipico in questo. Oggi nel settore alimentare bisogna imparare quello che già sta avvenendo nel settore healthcare dove i nuovi farmaci sono sviluppati anche grazie alla partecipazione dei cittadini e dei pazienti, quindi parliamo di pazienti esperti e coinvolti nel dare input nei processi di drug development. Questo perché si riconosce l’importanza di quanto una persona con sapere laico ed esperienziale possa aiutare il sapere tecnico dello scienziato nel caso dei farmaci e quello, per esempio, del tecnologo alimentare nel caso dei prodotti alimentari. In medicina parliamo sempre di più di una scienza traslazionale che deve produrre evidenze valide ed applicabili nel mondo reale. Un modo per riuscire a realizzare tutto questo è, sin dalle primissime fasi di pianificazione di una ricerca scientifica, avere un coinvolgimento e un dialogo con la società laica, con i pazienti e i consumatori che sono appunto portatori di un sapere che è fondamentale e complementare al sapere tecnico scientifico. Questo dialogo è la chiave per la futura accettazione dell’innovazione scientifica, e quindi per decretarne il successo. Mi sento di dire che EngageMinds Hub è sicuramente uno spazio dove può avere luogo questo dialogo e il coinvolgimento attivo delle persone: una mediazione culturale tra scienza della vita e società».