Qualche mese fa mi trovavo nella mia libreria preferita: un chiosco ribelle per gli amanti della bella carta in una stradina nascosta. Entra un signore ed esordisce: «Ma quindi questa azienda…». Antonio, giovane anima di quei 4 metri quadrati di spazio infinito, lo interrompe: «Questa è un’impresa. In tutti i sensi. Smettiamo di chiamare aziende le imprese, per favore».
/Im·pré·sa/, che bella parola. Nella definizione che ci ha lasciato Tullio De Mauro è attività, azione importante e difficile, che richiede particolare impegno e comporta dei rischi: un’impresa è eccezionale, pericolosa, ardua […] (Il dizionario della lingua italiana per il terzo millennio, Paravia, 2000), prima ancora di essere attività economica organizzata per la produzione e lo scambio di beni e servizi, come la definisce il nostro Codice Civile (art. 2082).
L’azienda è lo strumento attraverso cui viene esercitata l’impresa, dice ancora il codice civile (art. 2555).
Ma possono esserci modi di fare l’impresa che siano diversi da quella idea di azienda che ci ha portato a sviluppare il modello della crescita infinita su cui si basano le nostre economie e il nostro vivere e che ci sta mostrando tutte le sue fragilità e ingiustizie sistemiche?
Le nostre aziende appaiono sempre più come delle gabbie funzionali alla società di mercato, contesti alla ricerca di un successo che c’entra poco con la felicità: un immenso accumulo di performance. Misurato con il PIL. Ubriachi di una ormai vecchia definizione di successo e di sviluppo, continuiamo a vivere in quello che mi appare come un grande bluff: la creazione di valore economico come obiettivo primario, la grande metropoli come promessa di successo, le grandi corporate come luoghi privilegiati di lavoro in cui trovare piena espressione.
Abbiamo bisogno di usare nuove parole, o ridefinirle, per ristrutturare il pensiero e costruire una nuova realtà, una nuova idea di abbondanza.
Parlare di prosperità. Una prosperità che si nutra di benessere e che dia significato concreto alla cura del bene comune. Che costruisca una relazione non estrattiva ma simbiotica con l’ambiente circostante. Che non consideri la città come il punto più avanzato di ogni sperimentazione e come punto d’arrivo a cui aspirare. Una prosperità che abbia a che fare con la felicità e non con il PIL; con i piccoli luoghi e non con le grandi città; con le Comunità e non con le Corporate.
Parlare di sobrietà. Della parola sobrietà ho sempre amato innanzitutto il suono: una musica non barocca. Sobrietà significa puntare all’essenziale, connettersi al cuore delle cose, essere presenti a sé stessi. Racconterò qui un’esperienza che può farci capire come modi nuovi di fare l’impresa possano aprire le porte a una prosperità ripensata e sobria, che si nutre di nuovi immaginari per coltivare semi di futuri.
Un’ibrida tribù di partenze, restanze, mescolanze
La Rivoluzione delle Seppie è un ipercollettivo che nasce e si alimenta di uno spirito internazionale ma che trova posto in una piccolissima comunità calabrese, Belmonte Calabro, piccolo paese ai bordi dell’entroterra cosentino, adagiato su una collina che guarda il mar Tirreno. Un gruppo internazionale di professionisti e studenti che si definiscono comunità effimera, perché di passaggio, e ibrida, perché fatta di diversità.
Rita Elvira Adamo, Ph.D in Architecture and Territory, Co-founder de La Rivoluzione delle Seppie, mi racconta: «Un testo di architettura, quando alcuni di noi erano ancora studenti alla London Metropolitan University, ci ha ispirato: parlava dei calamari vampiro, che vivono nel profondo dell’oceano, non riescono a vedere ma hanno un senso tattile molto sviluppato. Imparano toccando, facendo esperienza di quello che li circonda. Avevamo lo stesso desiderio, quello di toccare con mano e sperimentare nuovi modi di vivere, imparare, lavorare. E abbiamo deciso di farlo collettivamente, decidendo di andare alla ricerca di gusci abbandonati e di operare lì, occupando lo spazio e assumendone la forma. In tutto questo abbiamo trasformato i calamari in seppie, ci sembrava più poetico».
Vuoti dei territori. Territori vuoti. Chi nasce in territori dimenticati, lontani dalle grandi città, vive un profondo conflitto. Restare o partire? Fermarsi o andare verso un altrove che promette autorealizzazione? Questo conflitto si è troppo spesso risolto nell’abbandono. È stato certamente così per le generazioni passate, compresa la mia: andare via era urgenza di esistere (Vito Teti, La Restanza, Einaudi, 2022). Ma la storia delle Seppie segue nuove traiettorie. E ci racconta che stare in between sta diventando una nuova, reale possibilità. Vedo movimenti fluidi, soprattutto da parte dei giovani, che ricompongono il desiderio di restare, la necessità di andare, la voglia di tornare. E in questo movimento si possono generare nuove forme di autorealizzazione.
Il progetto de La Rivoluzione delle Seppie prende vita nel 2016 quando alla London Metropolitan University, nasce l’idea di realizzare un’esperienza di Summer School per sperimentare nuovi linguaggi dell’architettura basati sul learning by doing. Rita Elvira Adamo, al tempo studentessa all’università londinese, propone di realizzare il progetto nel piccolo paese in cui è cresciuta, Belmonte Calabro, ormai abitato da poche centinaia di anime e da pochissimi giovani.
E così comincia tutto: «arrivano a Belmonte i primi forestieri, 13 studenti e 6 docenti della London MET, ospitati da Paola e Stefano, due artisti calabresi che avevano recuperato l’Ex Convento, un edificio storico abbandonato. Io fin da subito sognavo un percorso interdisciplinare, non solo architetti e aspiranti tali. Così, appena arrivata in Calabria coinvolgo il CAS (Centro di Accoglienza Straordinaria) di Amantea, lì a pochi chilometri, che ospitava più di 400 migranti».
Che paradosso. Il movimento uguale e contrario di due grandi migrazioni a confronto: chi arriva pieno di speranze dal Mediterraneo e chi va via, spopolando paesi.
«Abbiamo cominciato a lavorare insieme, studenti e migranti, qualche local ha iniziato a inserirsi, ancora guardingo… ma fu una settimana piena di emozioni e ricca di progetti».
Non poteva finire lì.
«Dopo neanche due mesi dalla fine della Summer School» racconta ancora Rita, «i docenti decidono di creare una classe di ricerca all’interno della Facoltà di Architettura della London MET, che avrebbe sviluppato progetti architettonici ideali pensati per Belmonte Calabro, per riattivare il territorio e creare collaborazioni con la comunità locale».
Il percorso di riattivazione territoriale si consolida l’anno successivo con la nascita dell’Associazione Le Seppie e la collaborazione con il collettivo di architettura Orizzontale: insieme sono La Rivoluzione delle Seppie e finalizzano un partenariato con l’Università londinese, un protocollo con il Comune di Belmonte Calabro e la collaborazione con l’Associazione Ex Convento.
Il comune offre una casa di sua proprietà che diventa la casa di BelMondo: «Teniamo molto al nome della nostra casa, è stato coniato da un giovane migrante, perché lì aveva riscoperto la bellezza. BelMondo è il nostro mondo immaginario, un concetto astratto che vuole oltrepassare l’approccio dell’intervento architettonico o di comunicazione, lavorando sull’immaginario per dare ancora più forza a quella che è una libera ed emotiva interpretazione di quello che si crea, la volontà di riempire gli spazi vuoti e dare nuova forma e sostanza al vivere questi spazi, trasformandoli in luoghi dell’abitare».
È l’ex Casa delle monache trasformata in una fabbrica di idee, ricerca e sperimentazione che accoglie migranti, accademici, professionisti, abitanti temporanei e abitanti di Belmonte. E crescono le iniziative, come il South Learning, che alimentano gli scambi tra la realtà locale e la rete internazionale di abitanti temporanei che giungono ciclicamente.
Con effetti collaterali inaspettati: il primo bancomat in paese, lezioni di inglese al bar del corso, creazioni fatte a più mani da studenti e maestranze locali.
«Siamo riusciti a creare una connessione fortissima, il paese si è preso cura di noi ed è diventato una grande casa. La comunità temporanea oggi è una comunità permanente, in continua evoluzione. I guaglioni di Londra sono diventati i guaglioni del mondo e ormai a Belmonte non ci aspettano più come se il nostro arrivo fosse un avvenimento straordinario, sanno che ci siamo e continueremo ad esserci».
Iniziativa tra le più interessanti è Crossing che annualmente trova il punto di massima contaminazione per sviluppare progettualità sul territorio: per due settimane, a luglio, si realizzano workshop di autocostruzione, eventi, laboratori, momenti di formazione, di socialità, sempre insieme alla comunità locale, sempre alimentando il prezioso Genius Loci.
Tutto questo sta contribuendo a cambiare la percezione del luogo: non l’antico borgo dalla bellezza stereotipata, ma la nuova comunità fatta da rinnovati confronti, da nuovi rapporti sociali. «E lo dimostrano le opere di arredo urbano che abbiamo creato insieme, oppure una app che ripropone, in formato digitale, una vecchia usanza del paese: se devo scendere alla marina vado al vecchio belvedere e lì trovo di sicuro un passaggio».
A proposito di marine (intesa come area urbanizzata sul litorale). Sono la rappresentazione della perdita di identità che si è consumata nelle aree litoranee della Calabria – ma anche di tanta altra parte del nostro Paese – con un’edilizia irrispettosa, dove è davvero sfidante scorgere bellezza. Quella che c’era è dimenticata, trascurata, spesso vilipesa.
La Rivoluzione delle Seppie decide di non fermarsi al centro storico di Belmonte ma di sbarcare alla marina. Ebbene, la bellezza è stata ritrovata guardando con occhi nuovi l’inutilizzata struttura del mercato comunale. Con gli occhi della cura e del sogno.
Ho avuto il piacere di dare il mio contributo a La Rivoluzione delle Seppie in più momenti di co-creazione e collaborazione trasversale. Così alla marina, nell’area del mercato comunale, abbiamo ideato Le Tavolate: tutti gli abitanti del paese sono stati invitati nell’area dismessa del mercato, e intorno a una tavola imbandita di cibo e di idee, abbiamo vissuto un’esperienza di co-creazione e dialogo per provare a immaginare quell’area come un luogo vivo di aggregazione. Giovani con il telo mare sulla spalla, appena arrivati dalla spiaggia, persone anziane con tanta vita vissuta e sogni ancora vivi, insegnanti, una giovanissima vicesindaca con parte della giunta comunale, e poi studenti londinesi, artisti svizzeri, viaggiatori in bicicletta, giovani del servizio civile, antichi musicisti con la chitarra battente: tutti lì, intorno alla tavolata. Quella mescolanza così arricchente tra chi vive lì da una vita, chi è tornato, chi è di passaggio, chi sogna di andare, chi di restare, chi si impegna, chi è più disincantato.
Una comunità ibrida che finalmente guardava con occhi nuovi quel luogo dimenticato, facendolo tornare a vivere e immaginando tutta la sua forza generativa, al servizio del bene comune. Un’area che adesso si sta realmente trasformando e sta tornando ad essere di tutti. Da parcheggio a piazza, da luogo ameno ad area dove si fa musica e creatività.
Nel racconto di Rita: «Il mercato per noi è un esempio di non finito pubblico, cattedrale nel deserto, un’isola fluttuante, uno spazio che abbiamo voluto trasformare in un luogo attraverso le nostre azioni. La nuova piazza mercato è il simbolo di una nuova comunità in crescita a Belmonte Calabro ma è anche un esempio di com’è possibile sviluppare inedite forme di intelligenza progettuale, soprattutto coniugando autonomia e collaborazione».
Partendo da Belmonte e incrociando linguaggi ed esperienze diversi, questa comunità in movimento su “confini dinamici” sta impegnandosi a costruire un modello di vita e lavoro collettivo da contrapporre all’iperspecializzazione e alla competitività, con un forte senso di comunità e appartenenza e con il desiderio di trovare soluzioni a problemi reali: un luogo fatto di persone, di nomi propri.
Un luogo dove si fa innovazione sociale valorizzando le intercapedini tra apparenti ossimori: tra radici e futuro, tra giovani e vecchi, tra terra e tecnologia, tra comunità permanenti e comunità temporanee, tra prossimità e distanza, tra memoria ed esplorazione.
Seguo con passione l’esperienza de La Rivoluzione delle Seppie perché la considero un reale esperimento di nuova prosperità: che vede l’opportunità nascosta nello scarto, nell’inutilizzato, nel dimenticato. Che vuole trovare una nuova misura della felicità: non come risultato del successo nella competizione ma come risultante della creazione di relazioni, di connessioni tra le persone e le loro unicità. Volgere lo sguardo ai luoghi marginali, alle comunità locali, può aiutarci a capire cosa significhi prosperità nel contesto delle vite vissute e come può diventare una direttrice per un nuovo modello di sviluppo e di generazione di impatto sociale, nel nome della sobrietà. È una strada intrigante perché ci richiede quel coraggio e quella spregiudicatezza che ci porterà a inventarci davvero un nuovo futuro, i luoghi che abiteremo, gli spazi in cui lavoreremo, i modi in cui vivremo. E il mondo che lasceremo ai nostri figli e alle nostre figlie.
E questa non è un’azienda, è una bella impresa collettiva.
*Un ringraziamento speciale va a Rita Elvira Adamo, Ph.D in Architecture and Territory, Co-founder La Rivoluzione delle Seppie. I suoi racconti, la condivisione della visione, il coinvolgimento nel progetto hanno ispirato questa mia riflessione.