In greco antico, diaita (δίαιτα) significava «modo di vivere». Nello specifico, per la medicina greca, un complesso di norme di vita – composto non solo dall’alimentazione, ma anche, ad esempio, dall’attività fisica o dal riposo – capace di garantire un buono stato di salute. E, per la letteratura antica, persino un sinonimo di un luogo metaforico dove svolgere le pratiche abituali; una sorta di dimora simbolica.
Oggi, come ben sappiamo, non è più così: perché quella stessa parola adesso attira l’ostilità di molti, facendo riferimento nel linguaggio comune (come riportato dai più noti vocabolari) a una temporanea astinenza dal cibo, totale o parziale, finalizzata al dimagrimento.
Com’è potuto accadere che il concetto di privazione abbia spodestato quello così importante di stile di vita?
In generale, escluse poche eccezioni, le cause del cambiamento linguistico non sono mai del tutto chiare. È però certo che a contribuire in modo notevole alla variazione di significato di una parola siano sempre i processi sociali: quelle trasformazioni della società che distruggono i modelli ai quali si rifaceva il passato, producendone di nuovi. Non può essere dunque un caso che la nuova accezione del termine dieta come regime alimentare (espressione rigida, assolutamente emblematica) si sia diffusa nel linguaggio comune in concomitanza con la rivoluzione culturale e sociale che ha travolto l’Italia tra gli anni Sessanta e i Settanta, riversandosi persino sui comuni canoni estetici. Non più bellezze sinuose e morbide, ma figure esili, minute e longilinee. Uno scenario, quest’ultimo, complicatosi negli anni Novanta, quando il «magro è bello» stampato ovunque coincideva con un implicito consiglio per tutti di mettersi a dieta. Da allora, la situazione è fortunatamente migliorata; ma nel linguaggio comune il termine dieta continua a portare il fardello di quegli anni in cui il suo significato era quasi del tutto relegato al concetto di privazione.
Eppure, proprio alla fine degli anni Settanta è accaduto che due scienziati americani, Ancel Keys e Margaret Haney, approdati in Cilento già qualche anno prima, abbiano ridato splendore ai vecchi lustri della parola diaita intesa come «modo di vivere», coniando l’espressione Dieta Mediterranea.
Non solo un sistema alimentare fondato su un nutrimento di qualità, ma anche uno stile di vita – comprensivo della lentezza, della convivialità, del rispetto dei sensi – messo nero su bianco nel libro
del 1975, How to Eat Well and Stay Well, the Mediterranean Way, e ben praticato da noi italiani.
Nella narrazione di quello che non solo è stato inserito dall’UNESCO tra i patrimoni immateriali dell’umanità, ma anche dichiarato dall’OMS come uno dei modelli alimentari più salutari a livello globale e dalla FAO come uno di quelli più sostenibili, qualcosa, però, è andato storto. E lo dimostra in maniera significativa una ricerca pubblicata nel 2022 nella rivista Current Developments in Nutrition, che ha esaminato i contenuti relativi alla Dieta Mediterranea su TikTok, il social network più utilizzato dalle giovani generazioni. Analizzando i primi duecento video correlati all’hashtag #mediterraneandiet, i ricercatori hanno rilevato che, nonostante il 78% fossero attinenti alla salute, meno del 9% offriva una definizione chiara del concetto “Dieta Mediterranea”. Un post su cinque si focalizzava poi sui soli aspetti della gastronomia del Mediterraneo, senza fare alcun riferimento alla salute: di questi, il 69% promuoveva addirittura alimenti che non hanno nessun tipo di legame con quelli della Dieta Mediterranea (ad esempio, i cibi trasformati). Insomma, un quadro che mostra numerose contraddizioni a cui sorprendentemente persino noi italiani non siamo esenti.
Solo in Italia sono presenti tre canali telematici e sono trasmessi settanta programmi dedicati al food. Secondo gli ultimi dati Auditel, sono 17 milioni (30%) gli italiani che ogni mese guardano almeno due ore di contenuti sul tema, e la stessa situazione si registra tra i media. In un rapporto dell’Eco della Stampa, che ha utilizzato 350.000 fonti e 1 milione di contenuti al giorno, nel 2019 i media si sono occupati di cibo 1.373.312 volte (sul web: 729.357; sulla stampa: 524.488; sulla radio: 88.555; in tv: 30.912). Inoltre, nel 2019, il cibo ha rappresentato il 13,5% dell’informazione legata al tema del Made in Italy, producendo in totale quasi 300.000 pubblicazioni. Questa passione è tutt’ora viva, come si nota osservando i dati di Google Trends dal gennaio del 2023: l’interesse di ricerca per la parola in italiano e in inglese (cibo o food) si aggira intorno al 100 (indice di massima frequenza), scendendo raramente ai 70/60; una media comunque altissima. Protagonisti per eccellenza di queste piattaforme sono le ricette e le gare culinarie; rarissimi i riferimenti alla diaita come stile di vita.
Nonostante il grande interesse sul tema, infatti, a conferma della generalizzata distorsione semantica del termine anche per un Paese, come il nostro, per cui il cibo non dovrebbe essere percepito come un concetto relativo alla sola sfera alimentare, si può notare come le tendenze cambino radicalmente se si esegue la stessa analisi sulla parola dieta: i picchi di interesse di ricerca in Google Trends sono sempre alti, ma raggiungono la massima frequenza durante i mesi estivi, quando la corsa alla restrizione si fa più affannata.
Sono quindi ancor più significativi i risultati che emergono riguardo alle tendenze di ricerca su Google dell’espressione Dieta Mediterranea.
Il grafico relativo alle ricerche effettuate in Italia dall’inizio dell’anno mostra un andamento singolare, caratterizzato da una frequenza media da 0 a 25 (ovvero da nulla a bassa) con un solo picco di 100
(massima frequenza), nel 15 gennaio 2023 – giorno in cui la Coldiretti ha diffuso la classifica del Best Diets Ranking elaborata dall’US New World’s Report’s che poneva in vetta la Dieta Mediterranea come migliore sistema alimentare al mondo. Peraltro, la stessa analisi, su scala globale, mostra esattamente il medesimo fenomeno: le ricerche di Google relative alla Dieta Mediterranea schizzano in concomitanza del 14 marzo, data in cui è stato pubblicato su Heart e poi diffuso dalla CNN uno studio riguardo ala riduzione del 25% del rischio delle malattie cardiache delle donne che seguono questo modello.
Tirando le somme, da questo resoconto si possono estrarre due considerazioni: in linea generale, il grande interesse sul tema del cibo non si espande al di là dei confini delle ricette o delle diete dimagranti; e, nonostante l’Italia, con il Cilento – e quindi con la scuola eleatica di Parmenide e Zenone e con la Scuola Medica Salernitana –, sia la culla della cultura della salute e delle connessioni tra l’uomo e la natura tramite il cibo, nel Paese regna una complessivo disinteresse sulla Dieta Mediterranea. Su una eredità che – bisogna ripeterlo – non è solo un elenco di alimenti, ma un insieme di saperi traducibile in un paradigma di sviluppo sostenibile e inclusivo che ha come suo principale obiettivo l’incontro virtuoso tra territorio e persone. Uno stile di vita che da millenni pone al centro il concetto di cura: per la salute, per l’ecosistema, per la biodiversità, per le tradizioni, per la comunità nella relazione che nasce con il convivio. Un modello nutrizionale per la salute e il benessere delle persone che lo praticano e un modo di vivere tramite cui rigenerare integralmente il nostro pianeta, essendo fondato sulla gestione sapiente delle risorse naturali, sull’efficienza dell’uso tradizionale dell’acqua, sulla salvaguardia di specie e varietà, sull’equilibrio tra territori e persone.
Le tutele dell’UNESCO sembrano non essere sufficienti per preservare questo patrimonio contro la disinformazione generata perlopiù dai social media; né contro stili di vita che conducono a orientare le proprie scelte sull’efficienza e sulla fruizione di cibi veloci, comodi e “alla moda”; né contro la mancanza di educazione alimentare, contro quella povertà educativa che spesso si traduce in una resistenza ostinata ad accogliere tradizioni e modi di vivere che sono da millenni fonti di benessere; né contro il dissolvimento del concetto di dieta come stile di vita.
Dunque, che fare?
Educare – a mio parere – è sempre la vera, grande, possibile soluzione. Educare al cambiamento di mentalità, innanzitutto: per tornare a percepire l’essenza del concetto di diaita. Non una privazione, ma, anzi, un arricchimento proveniente anche – ma non solo – dal cibo. Questo potente strumento può funzionare in modo concreto contro la disinformazione, il disinteresse e l’inconsapevolezza solo qualora accompagnato da una ragionata narrazione: corretta, certamente; ma anche allettante.
Ogni incontro può determinare un cambiamento radicale della mentalità dell’altro, del modo in cui si rapporta al cibo e a tutto ciò che a esso è correlato: dunque, ognuno di noi, può avere un ruolo attivo in questo processo educativo. Ancor più, però, se è in qualche modo coinvolto in dinamiche mediatiche. Non dobbiamo dimenticare che il Time dedicò nel 1961 la sua copertina ad Ancel Keys
che, rilasciando una lunga intervista, invitò i suoi connazionali a evitare cibi ricchi di grassi idrogenati, per seguire l’esempio degli italiani e il modello di quella diaita che, dati alla mano, incideva in modo sostanziale sulla longevità delle persone. O che la BBC nel 1985, riservando ai due scienziati delle puntate di un programma educational condotto dal medico inglese Michael O’Donnell, The food connection, si fece promotore indiretto di un modello culturale prima ancora che alimentare.
I media – di qualsiasi tipo essi siano – possono essere potentissimi strumenti di formazione, qualora usati nel modo corretto; soprattutto perché agiscono su vasta scala. Ma per agire su larga scala è necessario anche aderire e valorizzare progetti che si muovono in tale direzione, così creando un impatto profondo e duraturo che possa davvero contrastare la mancanza di conoscenza sul tema o, peggio ancora, la “cattiva coscienza”.
L’obiettivo del progetto europeo SWITCH, finanziato da Horizon Europe, in linea con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite (SDGs), è esattamente quello di cambiare i sistemi alimentari dei cittadini europei per una transizione alimentare giusta, salutare e sostenibile attraverso la conoscenza e l’innovazione. Difatti, la ricerca, l’approccio scientifico e l’uso sistematico delle tecnologie – lungo l’intera filiera alimentare, dalla produzione al consumo – sono i tramiti mediante cui SWITCH si propone di diffondere e radicare una più ampia consapevolezza e diffusione di sistemi alimentari sani e sostenibili nell’Unione europea; un miglioramento della comprensione delle lacune, in termini di formazione e accessibilità, che limitano l’adozione su larga scala di modelli alimentari salutari per le persone (e, di conseguenza, per l’ambiente, per la biodiversità, per la società, per l’economia). Perché diete sostenibili (come la Dieta Mediterranea) – intese nel senso etimologico del termine, dal greco díaita: modo di vivere, e non un semplice elenco di alimenti – creano modelli di sviluppo sostenibili e inclusivi che non abbiano come principale fine il profitto, ma – come già detto – l’incontro virtuoso tra territorio e persone.
Con questi obiettivi, SWITCH ha posto come suo asset strategico i Food Hubs che rappresentano i sistemi alimentari delle regioni urbane (CRFS); ovvero, secondo la definizione della FAO, «tutti gli attori, i processi e le relazioni che sono coinvolti nella produzione, trasformazione, distribuzione e consumo alimentare in una determinata regione urbana». Si tratta di regioni geografiche – che includono uno o più centri urbani, e le loro aree circostanti, periurbane e rurali – attraverso cui fluiscono persone, cibo, beni, risorse e servizi ecosistemici, e tutti gli attori e le attività del sistema alimentare. In tutta Europa ce ne sono sei: Roma e la regione del Lazio; Berlino e la regione del Brandeburgo; Montpellier e la regione dell’Occitania; Cagliari e la regione della Sardegna; Göteborg e la regione di Västra Götaland; San Sebastian e la regione basca.
In quattro anni, i Food Hubs e i partner coinvolti nel progetto (tra cui noi di Future Food Institute) oltre che a implementare localmente la sostenibilità ambientale, economica e sociale, l’accessibilità della domanda e dell’offerta di cibi sostenibili e salutari, puntano a migliorare i modelli alimentari e i relativi approcci culturali, ad aumentare la conoscenza, la consapevolezza.
Certo, affinché progetti e piattaforme abilitanti di tale livello possano essere davvero funzionanti, devono essere sempre affiancati da una educazione intesa come formazione umana integrale, come Paideia: un processo di apprendimento continuo che, creando un’intima relazione tra l’uomo e l’ambiente, educa naturalmente alla sacralità del cibo come stile di vita composto da armonia, bellezza, piacere, convivialità. Affinché si accosti naturalmente, quasi per analogia, il cibo al benessere – che mai può esserci dove c’è privazione – e, soprattutto, la dieta allo stile di vita.