Salari bassi, carichi di lavoro insostenibili, cultura antisindacale e precarietà. Sono le leve che stanno spingendo sempre più persone in tutto il mondo ad abbandonare il proprio posto di lavoro, alimentando quel fenomeno ormai noto come “great resignation” (le grandi dimissioni), espressione coniata dal filosofo del lavoro Antony Koltz. Una tendenza che si conferma in crescita di anno in anno: negli Stati Uniti il numero delle dimissioni volontarie ammontava a 48 milioni nel 2021, per salire a più di 50 milioni nel 2022. In Italia, il record di 2 milioni toccato nel 2021, è stato superato nel 2022.
Secondo la sociologa Francesca Coin, che si occupa di lavoro e diseguaglianze sociali, il nuovo rifiuto del lavoro è “il sintomo di una rottura epocale”. Lo spiega nel suo saggio edito da Einaudi Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, un’ampia analisi sulle ragioni che hanno portato al “divorzio” (per usare la metafora familiare che ricorre nel libro) tra dipendenti e azienda.
Il legame indissolubile, basato sulla devozione e la lealtà, che manager e consulenti hanno tentato di stringere allo scopo di legare a sé il dipendente in un “matrimonio aziendale”, è entrato in crisi nel momento in cui i lavoratori si sono sentiti traditi e hanno realizzato che la loro devozione non è stata ripagata con un’adeguata ricompensa. Questa narrativa dell’azienda come famiglia, complice di aver diffuso una cultura del lavoro tossica, ha subito una sterzata durante la pandemia, che ha portato a galla un rapporto fatto di contraddizioni e sacrifici non corrisposti. Coin riporta molte testimonianze di medici e infermieri impegnati a far fronte all’emergenza covid-19, durante la quale si sono sentiti trattati come carne da macello.
In questo contesto, la disaffezione al lavoro non è un fatto strano. A sorprendere, evidenzia Coin, è che oggi molte persone si dimettono consapevoli di non avere grandi alternative migliori. Circostanza ancora più vera in un contesto come quello italiano, dove i salari sono diminuiti negli ultimi 30 anni e dove un lavoratore su 3 guadagna meno di mille euro al mese. Le persone cominciano a domandarsi se ha senso rovinarsi la salute per una paga da fame, guadagnare poche centinaia di euro per poi spenderli per pagare qualcuno che si prenda cura dei figli. “La vita non è una merce”, scrive Coin. “La ricchezza non è il denaro. Perciò le persone rifiutano di lavorare: per vivere”.
Con un linguaggio accademico ma scorrevole, Francesca Coin analizza come si è evoluto il mercato del lavoro dal dopoguerra a oggi, mettendo in luce l’assurdità di un modello produttivo, interessato unicamente a tagliare il costo del lavoro in nome dei profitti.
“Le Grandi dimissioni sono la cartina di tornasole dello scollamento tra i bisogni della società e le finalità del sistema produttivo”, precisa l’autrice, evidenziando l’urgenza da parte della politica di occuparsi di tutelare ed estendere i diritti del lavoro, ripensare le finalità della struttura produttiva in un’epoca segnata dal cambiamento climatico, dall’automazione e dall’intelligenza artificiale e, soprattutto, da un crescente bisogno di cura da parte della popolazione.