Fin dall’alba della civiltà, la Terra è stata considerata una potenza femminile e generatrice che prolifica, custodisce e accudisce; che è madre degli uomini, delle ore e di ogni principio di ordine naturale ed etico. Nonostante le distinzioni nate da stratificazioni di tempo e storia, la parola Terra – preservando persino nel segno linguistico contenuti semantici di grande valore – ha conservato nella gran parte delle lingue esistenti non solo il genere femminile (e dunque l’idea di maternità), ma anche il significato di «terreno; suolo». È curioso notare che in italiano e nella gran parte delle lingue derivate dallo stesso ceppo, l’etimologia del termine comunica un concetto del tutto contrapposto a quello di fertilità: «terra» deriva dalla radice tars-, che significa «essere secco, arido». Il motivo? Senz’altro la contrapposizione rispetto alla parte del globo governata dall’acqua. Eppure, non è possibile non riflettere su queste fatalità: sin dalle origini, si è creato un immediato collegamento tra la nozione più astratta di Terra madre e quella più concreta di suolo; quest’ultimo, certo, crea vita, ma a patto che qualcuno contrasti il suo inaridimento.
Come attesta il recente rapporto della FAO sul tema, “The Status of Women in agrifood system”, negli ultimi anni ad assumersi progressivamente questo compito, quasi rivendicando un atavico istinto materno, e a prendersi cura della Terra e della terra sono state le donne. Un ruolo a tal punto crescente da aver imposto all’ONU di coniare un’apposita espressione: la «femminilizzazione dell’agricoltura».
Analizzando la condizione femminile in tutta la filiera del sistema, il settore agroalimentare rappresenta a livello mondiale una tra le principali fonti di impiego (36%), con una percentuale molto ravvicinata a quella degli uomini (38%). Si potrebbe dunque pensare che l’agricoltura, per le donne, sia uno strumento diretto di empowerment – ovvero di consolidamento del loro potere di scelta, dell’incremento delle loro responsabilità e possibilità, dello sviluppo delle loro conoscenze e competenze. E così potenzialmente è: ma solo a patto che ci siano – citando ancora il rapporto della FAO – «risorse, competenze e capacità di azione adeguate». Com’è evidente, queste condizioni non sono presenti ovunque.
Partiamo dalle situazioni più gravi. Nell’Africa subsahariana, il 66% dell’occupazione femminile è nei sistemi agroalimentari, rispetto al 60% di quella maschile; altrettanto rilevante è il caso dell’Asia meridionale, dove il 71% delle lavoratrici è impegnato nel settore, contro il 47% dei lavoratori. Tuttavia, si tratta di una conseguenza del basso livello di sviluppo economico dei Paesi. Lì l’istruzione inadeguata, l’accesso limitato alle infrastrutture e ai mercati di base, l’elevato carico di lavoro non retribuito e le scarse opportunità di impiego al di fuori dell’agricoltura limitano difatti costitutivamente la condizione di un empowerment femminile. Un ulteriore esempio: come è riportato nella ricerca della FAO, nelle aree rurali la percentuale di donne nel settore agricolo è più alta (o comunque in aumento) rispetto a quella degli uomini a causa della significativa emigrazione maschile. Ma anche in tal caso, il dato non può essere direttamente associato a un miglioramento della condizione femminile: anzi, il fenomeno emigratorio può spesso innescare profondi squilibri nella divisione del lavoro e nelle relazioni all’interno della famiglia.
Anche in agricoltura, la disuguaglianza di genere tocca i mezzi di sussistenza, l’accesso alle risorse (alla tecnologia e ai servizi, ad esempio; ma anche al credito), l’opportunità di istruzione e formazione, la possibilità di inserimento in una rete sociale, la partecipazione nel processo decisionale all’interno del nucleo familiare sull’uso della terra e del reddito. Soprattutto a causa di norme di genere, strutture sociali discriminatorie e dinamiche di potere diseguali, le donne devono frequentemente affrontare barriere e vincoli che gli uomini non incontrano: altissima è la frequenza di ruoli marginali, salari inferiori con condizioni lavorative peggiori, impieghi a tempo parziale, irregolari, poco qualificati o ad alta intensità di lavoro. E a questi ostacoli, aggiunge la FAO, devono sommarsi le ulteriori sfide poste dagli «shock climatici, economici […], dai conflitti e dai crescenti rischi di violenza»; e – come dichiara nero su bianco anche l’ultimo rapporto dell’IPCC 2023 – dall’insicurezza alimentare, che colpisce in maggioranza le donne (con un divario del 4,3%, nel 2021). La partecipazione femminile ai sistemi agroalimentari cambia nel tempo con lo sviluppo economico e sociale di ogni Paese, certo; ma la condizione di lavoro delle donne continua a essere direttamente influenzata dagli squilibri di genere nel potere contrattuale all’interno della comunità, della società e – tristemente – dell’umanità.
I dati peggiori vanno necessariamente riportati perché registrano una realtà che dev’essere affrontata, e la cui risoluzione non può e non deve essere posticipata. Perché non può essere taciuto che metà della popolazione mondiale continua a essere sistematicamente svantaggiata in diverse dimensioni del benessere e del sostentamento economico.
Tuttavia, accanto a questi scenari, è indispensabile – se non persino doveroso – dare spazio a quei numeri, quelle informazioni, quelle iniziative che ci parlano di un cambiamento. Un cambiamento possibile e attuabile. Partiamo da un esempio tra quelli citati: in Mozambico, in seguito all’emigrazione maschile si sono registrati un maggiore benessere e una più ampia realizzazione economica delle donne; carichi di lavoro più elevati possono cioè condurre a una più grande autonomia e responsabilità, se regolati da giuste dinamiche.
Prendiamo poi il caso dell’Italia: i dati del 7° Censimento generale dell’Agricoltura pubblicato dall’Istat riportano un calo, rispetto agli anni precedenti, della presenza femminile occupata in agricoltura, il 30% del totale. Si è però rafforzata la partecipazione delle donne nel ruolo manageriale: il 31,5% dei capi di aziende agricole è femminile; e la percentuale più alta si registra nel Mezzogiorno, con una notevole presenza di donne imprenditrici agricole in Molise (40%). Si tratta di un dato più che positivo, anche solo considerando il valore simbolico di questi numeri per un ruolo – quello imprenditoriale – storicamente associato alla popolazione maschile.
I programmi, le iniziative e gli interventi che sfidano le diseguaglianze di genere e le norme discriminatorie si focalizzano troppo spesso unicamente sulle prime barriere del cambiamento – come le norme e le politiche – non lavorando abbastanza su ciò che ruota loro intorno. Gli «approcci trasformativi di genere», come sono definiti dalla FAO, sono senz’altro utili; ma sono davvero gli unici strumenti?
E se invece cambiamenti tangibili nell’uguaglianza di genere, nell’emancipazione femminile e nell’empowerment delle donne fossero realizzabili partendo da azioni su scala ridotta? Sebbene sia fondamentale impegnarsi con famiglie, comunità e società sul tema e sebbene sia imperativo che governi e organizzazioni internazionali migliorino l’accesso delle donne a ogni risorsa, tuttavia è sempre bene ricordare che anche la foresta più estesa è nata da piccoli semi. E il caso dell’agricoltura femminile lo dimostra.
Nel rapporto della FAO, è evidenziato un dato estremamente significativo sugli enormi vantaggi generati da progetti su piccola scala che promuovono l’emancipazione della donna nel settore, maggiori di quelli delle iniziative che la includono in maniera generalizzata. Perché più della metà dei finanziamenti bilaterali per lo sviluppo rurale e per l’agricoltura integra costitutivamente la dimensione di genere, ma solo il 6% la considera fondamentale. Se la metà dei piccoli produttori beneficiasse di interventi di sviluppo fondati sull’empowerment delle donne, si verificherebbe un aumento di reddito per circa 58 milioni di persone e persino di «resilienza» – citando ancora la FAO – di altri 235 milioni di persone. Benessere diffuso, efficienza e sostenibilità dei sistemi agroalimentari sarebbero le conseguenze.
Il programma EWA-Empowering Women in Agrifood si è inserito esattamente in questa progettualità. Promossa in undici paesi (Estonia, Grecia, Italia, Polonia, Portogallo, Serbia, Slovenia, Spagna, Turchia, Romania e Ucraina), questa iniziativa di EIT Food, in collaborazione con Future Food Institute e Dock3, ha come principale obiettivo quello di far emergere lo straordinario potenziale dell’imprenditoria femminile, risolvendo alcune tra le più importanti sfide del settore agroalimentare: promuovere la presenza femminile in posizioni dirigenziali, aumentare il numero delle start-up da loro guidate e superare il divario di genere ancora presente. Per sei mesi, dieci donne alla guida di una società già avviata o con un’idea da realizzare potranno seguire un corso di formazione, tenuto dal Future Food Institute e da Dock3, ed essere affiancate da mentori lungo il percorso di sviluppo imprenditoriale. Le partecipanti otterranno anche accesso alla EWA Community e a EIT FoodHIVE. Perché fare network, riunendo donne che ogni giorno contribuiscono con cura e dedizione al settore agricolo, è essenziale.
Le vincitrici di un premio in denaro saranno due; ma ognuna delle partecipanti potrà senza dubbio beneficiare di un programma che valorizza da anni l’enorme contributo offerto dal femminile a un campo strategico. Perché è vero che i dati ci mostrano una situazione ancora colpita dal divario di genere, ma è pur vero che sono sempre più numerosi gli esempi di donne che con scienza, saperi e innovazione compiono azioni di grande impatto nel settore agroalimentare, contribuendo alla formazione di un mercato sempre più competitivo. La presenza delle donne in agricoltura – così come in qualsiasi tipo di professione – dev’essere considerata a priori rispetto a qualsiasi valutazione morale ed etica: si parla di diritto che, in quanto libertà umana, dev’essere sempre dato per certo. Il supporto al settore, dunque, non può e non deve essere considerato solo come un contributo positivo alla causa della parità di genere, ma piuttosto come un tramite di arricchimento, anche in termini valoriali, di un mercato in progressiva crescita. L’ulteriore seme di una rigenerazione della Terra e della terra, che mai può realizzarsi in un ambiente degradato. Certo, l’assenza di inclusione, parità, uguaglianza è sempre degrado. Ma inaridito è anche quel suolo di cui non si avvalorano i semi.
Tutelare, valorizzare e dare spazio alle donne in un settore, come quello agroalimentare, che nutre maternamente il nostro pianeta significa coltivare (cultus) un campo (ăger) che può diventare un ecosistema.