Dopo la nascita della sua terza figlia, Gaia ha fondato un’associazione non profit per sensibilizzare sul rapporto degli adolescenti con gli strumenti digitali. Chiara, invece, è riuscita a conciliare l’arrivo della figlia Nina con la sua carriera di fotografa. E Alice ha trovato quelli che definisce “figli cerebrali” nel suo lavoro.
Sono alcune delle storie raccontate nel podcast Grembo, racconti di pancia, scritto e ideato da Anna Acquistapace, Communication strategist e podcaster dell’agenzia di brand journalism e content marketing LUZ, per raccontare le vicende reali di donne e il loro rapporto con la maternità, tra luci e ombre, in un Paese come l’Italia, dove nella maggior parte dei casi diventare madre implica dover rinunciare alla propria libertà e indipendenza.
Secondo i dati diffusi dall’Ispettorato del Lavoro, mentre il 78% delle dimissioni degli uomini è legato al passaggio ad un’altra azienda, per le donne le difficoltà di conciliazione tra lavoro e funzione di cura sono complessivamente il 65,5% del totale delle motivazioni.
Non stupisce quindi che le donne posticipino sempre di più il momento di diventare madri, quando non vi rinunciano del tutto, e che la natalità in Italia sia ai minimi storici (nel 2022 è stato raggiunto il nuovo record minimo di nascite che scendono per la prima volta sotto le quattrocentomila).
Come se non bastasse, la pressione sociale e mediatica fatta di madri sempre in forma e con i capelli in ordine induce un senso di colpa e di vergogna nelle mamme che faticano a trovare del tempo per loro stesse o in quelle che soffrono di depressione post partum.
«Abbiamo una visione estremamente edulcorata del periodo della maternità, nella quale non ci sono difficoltà e momenti di solitudine», racconta Anna, spiegando cosa l’ha spinta a creare il podcast. «Al contrario sappiamo che per le neomamme può essere un periodo molto complesso. Il mio podcast nasce dall’esigenza di creare un racconto diverso partendo dalle storie di chi è già passato o sta passando attraverso la maternità e le sue molteplici sfaccettature. La mia ambizione è che questo progetto possa contribuire a un cambio di narrazione sulla maternità, ma ovviamente per fare in modo che ciò accada c’è bisogno di un cambiamento più profondo nella cultura e nella società».
La solitudine delle mamme
Come emerge dal podcast di Anna, uno dei sentimenti più diffusi tra le neomamme è quello della solitudine. Lo confermano i risultati di un sondaggio condotto ad aprile 2023 da Ipsos in collaborazione con Save the Children per conoscere l’opinione e i vissuti di mamme di bambini di età compresa tra 0 e 2 anni, dal quale si evince che la maggior parte delle madri non si sono sentite supportate affatto.
L’indagine mostra come il sostegno principale provenga dalla famiglia e che l’esperienza del parto e dei primi mesi può essere accompagnata da sentimenti di tristezza, solitudine e inadeguatezza.
Più di una mamma su 3 dichiara di aver avuto l’esigenza, nelle settimane/mesi successivi al parto, di un supporto psicologico da parte di un professionista, anche se poi quasi la metà non si è rivolta a nessuno.
La maggior parte fatica a ritagliarsi del tempo per sé perché non sa a chi lasciare il figlio, ma sono molte le madri che si sentono in colpa ad affidare il bambino a qualcun altro.
Non potendo contare sui servizi pubblici come gli asili nido (soltanto il 18% delle mamme lavoratrici può contare sul supporto degli asili pubblici), sono costrette a chiedere aiuto ai parenti, sempre che questi ci siano e abbiano il tempo e la possibilità di offrire il loro sostegno.
In aggiunta, il senso di abbandono è amplificato dallo sbilanciamento del lavoro di cura, quasi sempre a svantaggio delle donne.
«Io ho la fortuna di avere una famiglia alquanto femminista», dice Anna raccontando la sua esperienza di maternità. «Ma viviamo in una società, quella italiana, che ha dei retaggi patriarcali ed è radicata dentro di noi la percezione che in quanto madri dobbiamo essere noi a occuparci di più della cura dei figli e quindi, pur venendo da una famiglia che mi sosteneva, ho sentito la pressione di dovermene occupare io».
Dall’indagine di Ipsos e Save the Children risulta inoltre che, sebbene solo il 13% delle mamme che convivono con il padre o l’attuale partner si dichiari insoddisfatta della collaborazione nell’accudimento del figlio/della figlia, sono loro a dedicare gran parte del proprio tempo quotidiano alla cura dei figli: 16 ore al giorno contro le 7 del partner.
Una questione di gender gap
L’ILO (International Labour Organization) riconosce il lavoro di cura dei figli come una componente di valore e di essenziale importanza per il futuro economico del mondo, intendendo per “lavoro di cura” le attività dirette, quali l’assistenza personale e relazionale, e attività indirette come la preparazione dei pasti e delle pulizie.
In Italia si fa una grande fatica a riconoscere questo valore e diventare madre potrebbe rivelarsi un incubo. Tutto questo a causa di una concezione diffusa e retrograda del ruolo della donna e della mancanza di politiche di assistenza a supporto delle madri.
Sempre l’ILO ha calcolato infatti che in Italia le donne dedicano in media 5 ore e 5 minuti al giorno a lavori di assistenza e cura non retribuiti, mentre gli uomini solo 1 ora e 48 minuti.
Anche per questo, ritrovare un equilibrio nel dedicato momento post partum, che porta con sé cambiamenti fisici e altri meno visibili, risulta difficilissimo e spesso e volentieri, le neomamme finiscono per rinunciare al loro lavoro e alla loro carriera.
«Recentemente leggevo il libro di Sonia Malaspina», ragiona Anna, «in cui affrontando il tema del congedo parentale condivide un dato eloquente: quasi il 50% dei lavori delle donne è part time contro il 26% degli uomini. Questo dato indica chiaramente una concezione stereotipata nel mondo del lavoro, tale per cui è considerato normale che quando si diventa madri si passi a una modalità di lavoro part time, perché sono le madri a doversi occupare del bambino e andare a prenderlo a scuola, avendo una predisposizione “naturale” all’accudimento. È un dato che non sorprende se pensiamo che oggi le donne guadagnano in media il 23% in meno rispetto agli uomini. Questo gender pay gap è sintomo del fatto che esiste ancora il “soffitto di cristallo”».
Coniata nel 1978 da Marilyn Loden, l’espressione “soffitto di cristallo” è una metafora che si usa per indicare una situazione lavorativa in cui l’avanzamento di carriera di una persona in una organizzazione lavorativa o sociale viene impedito per discriminazioni e barriere di prevalente origine razziale o sessuale. «Le donne hanno raggiunto un certo punto – io lo chiamo il soffitto di cristallo», scriveva Loden. «Sono nella parte superiore del management intermedio, si sono fermate e rimangono bloccate. Non c’è abbastanza spazio per tutte quelle donne ai vertici. Alcune si stanno orientando verso il lavoro autonomo. Altre stanno uscendo e mettono su famiglia».
Del resto, la posizione di svantaggio delle madri lavoratrici in termini di retribuzione, abilità percepite e benefici rispetto alle donne senza figli è una realtà talmente tangibile che i sociologi hanno creato un’espressione specifica per riferirsi al fenomeno: motherhood penalty.
Bisognerebbe parlare, invece, di motherhood ability.
Come mi fa notare Anna, infatti, una madre che torna dalla maternità è una donna che ha acquisito delle nuove abilità o potenziato quelle che aveva già.
«Ascolto attivo, crisis management, comunicazione efficace e assertiva, problem solving, responsabilizzazione e team working. Sono skills che un genitore acquisisce in tempi record e che tornano utili anche in ambito professionale. Questo tema, ancora non così sdoganato, ha fatto da apripista a un programma che si chiama Maternity As A Master (maam) fondato da Riccarda Zezza, che intende creare consapevolezza nei dirigenti sul fatto che, quando una lavoratrice ritorna dalla maternità, è in grado di fare il lavoro che faceva prima più velocemente, perché ha imparato a gestire le esigenze di un altro essere umano e sarà in grado di usare le soft skills acquisite anche sul posto di lavoro».
Politiche a supporto
Per sdoganarsi da questa narrativa asfissiante sulla maternità e attuare una rivoluzione culturale, c’è bisogno di un aiuto concreto da parte dello Stato che aiuti le madri a tornare al lavoro.
Sarebbe necessario, per esempio, tutelare le categorie che non hanno contratti da dipendente, come le lavoratrici autonome che quando rimangono incinta non hanno nessuna tutela. Ma anche, fa notare Anna, semplificare l’accesso all’informazione sui propri diritti.
Ad oggi le politiche familiari e assistenziali risultano insufficienti e, quando ci sono, spesso sono destinate alle famiglie più numerose, come la recente card Dedicata a te, il bonus spesa che raggiungerà 1 milione e 300 mila nuclei familiari con tre o più componenti e figli piccoli.
«Dal punto di vista politico, qualche passo avanti è stato fatto, anche se insufficiente», dice Anna. «I nidi sono aumentati dal 21 al 26% ed è aumentata la quota dei padri che prendono il congedo parentale. Si tratta di 10 giorni retribuiti al 100%, sfruttabili nei primi 5 mesi di vita del bambino/della bambina, in aggiunta a 3 mesi non trasferibili alla madre al 30%, più un mese non retribuito. Ma nonostante in Italia questo congedo sia obbligatorio, oggi solo il 35% dei papà ne usufruisce. Il fatto che sia retribuito al 30%, tra l’altro, dimostra come non sia una questione economica, ma culturale. Il tema, infatti, è strettamente legato al mondo del lavoro. Di recente l’UE ha stabilito che dal 2026 dovrà essere resa pubblica la RAL negli annunci di lavoro e questo rappresenta un passo in avanti verso il sanamento del gender pay gap».
L’importanza delle parole
Un altro step fondamentale per costruire una società che riconosce il valore delle madri, è quello di cambiare il nostro vocabolario e prestare più attenzione alle parole.
«Si parla sempre di work life balance. Io preferisco parlare, non di equilibrio vita-lavoro, ma di conciliazione vita-lavoro, genitorialità-lavoro», specifica Anna. «Invece di continuare a parlare di maternità quando si parla di accudimento dei figli, bisognerebbe iniziare a parlare di genitorialità. Così come bisognerebbe parlare di congedo parentale e non di maternità obbligatoria o facoltativa.
Inoltre, quando si parla di supporto alla genitorialità, è necessario pensare a quali azioni mettere in campo per fare in modo che il papà si inserisca nella cura e nell’accudimento, come succede già per le madri, e ridurre così il gender gap. È risaputo che nei Paesi nordici sono molto più avanti di noi da questo punto di vista. Nei Paesi scandinavi il 100% dei papà usufruisce del congedo parentale, argomento di cui ho recentemente discusso con Diego di Franco, conosciuto sui social come Il meraviglioso mondo dei papà. Lui si definisce uno stay-at-home-dad, nel senso che ha deciso di stare a casa ad occuparsi dei figli mentre la moglie va in ufficio tutti i giorni.
Ho deciso nel podcast di dare voce a una storia come quella di Diego perché queste figure in Italia sono ancora degli esemplari rari ed è indispensabile condividere testimonianze di questo genere se si vuole cambiare la narrazione della genitorialità. L’obiettivo è quello di smontare questi meccanismi patriarcali uno ad uno e raccontare storie come quella di Diego che contribuiscono a un racconto diverso.
Tornando, infine all’importanza delle parole, Diego viene spesso associato alla parola “mammo”, ma è una parola che non ha senso di esistere perché c’è già una parola per l’uomo che si occupa dei figli: papà».
La seconda stagione di “Grembo”
Dopo il successo della prima stagione, dallo scorso 13 settembre sono stati pubblicati cinque nuovi episodi insieme agli ospiti Anna (“ZenosRoom”), Matteo Bussola (scrittore e illustratore), Annalisa Monfreda (giornalista) e alle divulgatrici e divulgatori Francesca Ghelfi (“Leguminosa”) e Diego Di Franco (“Il meraviglioso mondo dei papà”).