Per mesi, con la pioggia intensa di questa primavera e con il sole battente, i ragazzi delle tende hanno manifestato davanti al Politecnico di Milano la loro critica ad una città che sempre più spesso li respinge. Chi è passato da piazza Leonardo da Vinci si è trovato di fronte una densa sequenza di tende di varia misura. Quei giovani studenti universitari hanno seguito l’esempio di Ilaria Lamera, studentessa bergamasca che per prima ha piantato sul prato la sua canadese – sola, coraggiosa, poi emulata da altri ragazzi a Milano e in altre città italiane, come Bologna, Roma, Padova.
Il movimento delle tende ci racconta che ogni generazione ha in sé gli anticorpi della protesta e della ribellione alle ingiustizie, alle strade sbarrate, ad un sistema che parla spesso di giovani ma poi li esclude dal lavoro, dai processi decisionali, dalla partecipazione pubblica.
I ragazzi del Politecnico, usciti dalle loro case, da settimane interrogano in profondità il senso del nostro abitare, il futuro che vogliamo dare al vivere in città. Non hanno competenze tecniche ma hanno istinto civile e un profondo senso della giustizia che trascende il loro bisogno individuale.
Non sono stati compresi dal mondo dell’informazione (e neppure da tanti colleghi docenti) che si domanda piccata: perché non si adattano alla vita da pendolari? Perché non cercano casa fuori Milano? Perché si lamentano se vivono a Pavia, a Bergamo, a Mantova e vengono a Milano a studiare?
Una domanda di case
Questa protesta può essere letta a vari livelli. Esiste certamente un’emergenza casa. A Milano in maniera esasperata e macroscopica sono saliti i prezzi delle case rendendo sempre più difficile trovare una stanza o un appartamento in affitto a prezzi accessibili.
A pagare il costo di questa intensa virata dei prezzi in città, se partiamo dai dati segnalati dai siti immobiliari per cui il prezzo medio di vendita di un immobile a Milano è salito dai 3.745 euro al mq del gennaio 2015 ai 5.208 euro del marzo 2023, sono soprattutto giovani e studenti universitari. O meglio, giovani e studenti e famiglie del ceto medio che lasciano il posto in città a giovani e studenti delle alte borghesie italiane ed estere che possono investire per i loro figli a Milano.
Milano sembra non perdere abitanti in termini di numeri assoluti – intorno ai numeri c’è una certa nebbia – ma si sta assistendo ad una sostituzione di vecchi abitanti con quelli nuovi. Questo processo sta cambiando il profilo antropologico della città: vanno via alcune delle categorie che formavano il suo nerbo, come giovani famiglie e commercianti, mentre arrivano uomini d’affari e manager, abitanti temporanei e di passaggio, turisti.
Un fenomeno che avviene sempre nelle grandi metropoli ma che a Milano ha caratteri di rapidità singolari e soprattutto sta avvenendo anche nelle aree periferiche. Benedetto dalla rendita è tutto il suolo milanese, entro i confini amministrativi.
Ovviamente, permangono le differenze tra zona e zona: dai 10.033 euro al mq del centro ai 2.685 euro al mq della zona Bisceglie, Baggio, Olmi. Non va meglio per gli affitti: a gennaio 2015 affittare casa in città costava in media 15 euro al mq, oggi 21,63 euro, con un aumento del 11,27% solo nell’ultimo anno.
Per la prima volta possiamo dire che è in corso una gentrificazione, intesa come valorizzazione immobiliare con relativa espulsione dei ceti più poveri, anche nelle periferie meno appetibili in termini di qualità dello spazio pubblico e di servizi, oltre che di qualità degli immobili. Appartamenti minuscoli, che un tempo avrebbero avuto la dignità di solai o poco più, vengono spacciati come loft a prezzi sostenuti, mentre una stanza in affitto con bagno condiviso ormai è introvabile a meno di 600 euro al mese. E qui il libro Case Milanesissime di Alvar Aaltissimo (Corraini, 2021), offre esilaranti declinazioni con misure, metriche e follie spaziali.
Una domanda di abitare
Ma, e qui il “ma” è particolarmente rilevante, la domanda di questi ragazzi non è (solo) una domanda di casa. Molte delle interviste fatte agli studenti delle tende, con toni aggressivi, come ci trovassimo di fronte ad un gioco da ragazzi, ad un capriccio di una generazione che ha tutto e si lamenta, rivelano un’assoluta incapacità di cogliere un punto che dovrebbe invece essere compreso anche dagli adulti.
Gli studenti non chiedono metri quadrati, la loro è soprattutto una domanda di abitare, di relazioni, di vita in comune che inizia nelle aule e prosegue alla fine delle lezioni, chiede fare un’esperienza di formazione che non si limiti a esami, voti, lezioni ma diventi bene relazionale, compagnia, incontri, affetti, relazioni sociali. Se non si comprende questo diritto fondamentale alla città prevarrà sempre un atteggiamento di paternalismo: ma cosa vogliono ancora questi ragazzi viziati?! Niente di più ottuso che leggere in questo modo questa protesta. E dopo anni di Covid hanno ben diritto a chiedere di uscire di casa.
Dovremmo invece ascoltare la voce di questa generazione e comprendere la novità di una politicizzazione della questione-casa da parte di ceti medi urbani più capaci di fare emergere la loro voce, si tratta di residenti di quartieri periferici o semi-periferici, dal quartiere Nolo a Corvetto, di studenti e lavoratori fuorisede, ma anche di professionisti stanchi di pagare a prezzi inarrivabili case di scarsa qualità edilizia, che cominciano a protestare.
Un tempo in questa città le voci del dissenso erano capaci di fare proprio il bisogno di casa dei più poveri, il diritto alla casa pubblica per chi non ha altre risorse, l’esclusione sistematica degli stranieri, ma certamente l’iniziativa degli studenti può essere un punto di partenza, se non siamo distratti e troppo presi dalle nostre piccole miserie quotidiane.
Una antica lezione dell’economista Albert O. Hirschman ci spiegava che di fronte allo scontento i consumatori – e quindi anche di noi cittadini – hanno due opzioni possibili: l’uscita (exit) e la protesta (voice). La prima descrive il solitario movimento in uscita dalla città di chi non ce la fa, non fa notizia, non disturba il manovratore, è invisibile; la seconda si fa protesta collettiva, voce, analisi, espressione di pensiero pubblico, malcontento che arriva sulla stampa e nei talk televisivi: questa disturba la politica, ma soprattutto piace molto poco ai mercati.
Perché la reputazione e i beni relazionali, tanto trascurati dalle politiche locali, sono elementi cruciali per continuare ad attrarre capitali e investimenti. Quanto è contraddittorio il mercato: è predatorio ma ama le cose belle e le persone felici! Vuole il manager nel suo attico affittato dall’azienda, ma anche l’osteria tradizionale a pochi passi da casa. Ma non si può avere tutto, ecco perché poi le bolle immobiliari scoppiano, le città implodono, il conflitto sociale si esacerba. Le città diventano dei deserti della finanza o resistono tenendo in tensione spinte economiche e sociali, come era stato negli anni passati.
Gli studenti non sono però l’unica voce. Questa aspirazione alla qualità di vita è la stessa che formulano le giovani famiglie costrette all’uscita. Per molte di loro è una necessità economica (costi troppo alti e scarsità di servizi per l’infanzia), per altre è un desiderio di trovare altrove un tempo e uno stile di vita più compatibile con le esigenze dei figli, delle donne, una richiesta di maggior prossimità con la natura che viene cercata in provincia o in altri contesti urbani.
L’esodo delle famiglie più giovani da Milano sta consumando in modo invisibile quel reticolo di welfare di prossimità che è nella storia del modello urbano ambrosiano: quella prossimità tra nonni e nipoti, fatta di reti amicali e familiari, di mutuo e reciproco sostegno che non è in alcun modo sostituibile da servizi e reti private o del terzo settore.
Abitare nello stesso quartiere dei genitori è stata la forma più efficace di welfare in un contesto davvero poco generoso dal versante pubblico con le famiglie. Milano non è città per bambini, per famiglie, per anziani soli. Verrebbe da chiedersi per chi è pensata la città dei prossimi anni.
L’uscita dallo stallo in termini di politiche non è affatto semplice.
Vediamo alcuni possibili loop: gli studenti chiedono più collegi e più case popolari, con una formulazione giusta dal loro punto di vista ma incongrua rispetto alla vera natura del problema. Davvero la soluzione saranno nuovi silos per studenti? Non mancano le case e gli immobili sfitti e inutilizzati ma il mercato preme per costruirne di nuovi e la domanda dei ragazzi rischia di essere strumentalizzata. È un problema di regole, di equità e non di quantità. Evitare nuova produzione edilizia coincide con quell’anima ecologista e attenta alla crisi climatica che pure quegli stessi ragazzi sostengono.
La risposta a una domanda complessa (di casa, servizi, città, welfare, verde, aria) non può essere una risposta semplice: più case, più studentati. Bisogna adottare una logica sistemica, sapendo che risolvere la fame di case degli studenti si deve coniugare anche con la possibilità di vivere in una città che costa troppo anche per mangiare, consumare, muoversi. Che non potremo rispondere alle necessità dei penultimi se non ci occupiamo anche degli ultimi e di quelle tristi code del pane che costringono sotto il sole cittadini milanesi e stranieri per un pezzo di pane, accanto alla Bocconi. Che avremo da reinventare modi e spazi di un dibattito pubblico intorno alla città, che non faccia parlare solo addetti ai lavori e portatori di interessi.
Una domanda di città pubblica
Ma, e c’è un terzo ma. Gli studenti formulano una domanda di città pubblica. Lavorare seduti in un parco o in un giardino pubblico, mangiare in improvvisati ristoranti all’aperto, studiare sui tavoli all’esterno di bar e locali, usare la bicicletta per andare al lavoro o nel tempo libero sono elementi che fanno la differenza nelle nostre giornate.
Ci sono città (e Milano è tra queste) dove l’unica modalità di interazione possibile con lo spazio è il consumo. Se sono in viaggio e ho bisogno di un bagno, devo consumare qualcosa in un bar. Se un gruppo di ragazzi vuole incontrarsi cerca un posto comodo per un aperitivo, una pizzeria, un locale. Tutte cose ovviamente bellissime e salutari per l’economia del luogo e la vocazione turistica delle città, meno per il portafoglio e la qualità della vita. Non di solo consumo possono vivere i cittadini e gli studenti.
La cultura civile di una città si potrebbe misurare contando tutte quelle cose che si possono fare senza pagare e tutti quei posti in cui si può stare gratuitamente. Proviamo a elencare le cose che potreste fare nel luogo dove abitate senza spendere soldi. Registreremmo una grandissima varietà di situazioni.
Zone di non-consumo. Non è difficile fare la conta. Ci sono bellissime città o anche località balneari o lacustri dove si paga tutto: il parcheggio se si arriva in auto, la tassa di soggiorno, l’albergo, l’ingresso nella stazione balneare e l’affitto di sdraio e lettino, i pranzi e le cene, e così via. Tutto ha un costo, anche l’accesso al mare. Lo stesso accade nelle città d’arte o nelle grandi metropoli. Se affiniamo lo sguardo potremmo allungare l’elenco con le bocciofile di periferia, gli oratori, i fiumi balneabili, le isole pedonali (ma solo se hanno panchine all’ombra degli alberi), i parchi giochi per i bambini ma solo se ombrosi e in terra battuta o prato, e così via. Le panchine all’ombra, così rare dovunque da candidarle davvero a patrimonio dell’umanità.
Basta infatti mettere il naso fuori Italia per vedere quanto le città potrebbero fare per migliore il tempo libero dei loro cittadini: Zurigo è uno dei centri urbani con la più alta densità di stabilimenti balneari al mondo; a Graz puoi giocare lungo il fiume Mura, a pallavolo in campi affacciati sul fiume.
A Milano avremmo il Naviglio e uno splendido progetto per riaprirne una parte che è stata interrata, ma la balneazione pare un orizzonte lontano e impraticabile. Ed è solo una questione di miopia culturale perché l’estate in città è una esperienza davvero sfidante e basterebbe copiare da chi ci ha già provato, per scoprire quanto beneficio potremmo trarne anche noi.
Gli studenti chiedono case, abitare, città per tutti. Tutte domande urgenti e necessarie se vogliamo restare cittadini partecipi di questo mondo e non solamente consumatori paganti di qualche giro di giostra.
La testimonianza
«Durante l’occupazione della casa dello studente di viale Romagna, a Milano abbiamo chiesto alle istituzioni lo stanziamento dei fondi da parte del governo per sbloccare i lavori nelle residenze universitarie, un cambio di direzione nella progettualità sull’abitare – come recuperare gli alloggi sfitti per residenze popolari e studentesche, e la limitazione dell’aumento incondizionato degli affitti». Le parole sono quelle di Angelo Boglione, genovese, 25 anni, uno degli studenti che con le loro tende si sono accampati davanti al Politecnico di Milano per denunciare gli affitti insostenibili e la crisi abitativa del nostro paese.
Con quali risultati? «La copertura da parte dei media è stata alta. In generale c’è stata grande apertura ad ascoltarci e riportare le nostre rivendicazioni, ma alcune testate hanno riportato le notizie in maniera faziosa. Più che critica, con argomentazioni nel merito, direi proprio senza deontologia, per la necessità di fare spettacolo e aderire a una narrazione già decisa a tavolino. La classe politica, nel suo complesso, ha fin da subito provato a intestarsi la lotta. Molti politici sono passati al campeggio per farsi delle foto e non si sono mai più rivisti né sentiti. Con l’amministrazione locale però siamo costantemente in contatto, anche se spesso le proposte che mettono sul piatto sono impalpabili o finanche deleterie: a volte sembra di non essere ascoltati e pure un po’ presi in giro. L’opinione pubblica, invece, ci è parsa polarizzata, tra i pochi che ci urlano addosso e chi, la maggior parte, ci confidava la sua stima e ci ringraziava. Ah, e ci portava il cibo, un sacco di cibo!».
Dichiaratamente cristiano cattolico, Angelo ha sempre preso molto seriamente le questioni sociali. «Non sono mai riuscito a rimanere indifferente alla sofferenza e all’ingiustizia. Crescendo ho conosciuto i femminismi e ho imparato che bisogna andare alle radici delle questioni per risolverle e che se i problemi sono collettivi le soluzioni non possono essere individuali. Una volta capite queste cose, è bastato un battito di ciglia per ritrovarmi attivista, ad agire direttamente per provare a risolvere i problemi senza più delegare ad altri le mie battaglie».
Il “movimento delle tende” è composto da anime molto diverse, «da chi ha avuto un percorso politico alle spalle a chi si coinvolge in prima persona per la prima volta, da studenti e lavoratori, da chi abita un’occupazione informale a chi è in affitto». Angelo racconta: «Grazie alla diversità delle voci e dei contributi della nostra assemblea non dobbiamo rispondere a un unico ente che sta sopra di noi: siamo indipendenti. Certo, questo significa che non siamo già in partenza tutti d’accordo e che dobbiamo costruire le nostre posizioni una riunione dopo l’altra, ma è una fatica che ci assumiamo volentieri».
Il rapporto con i suoi coetanei, ma non solo, è molto buono. «Al di fuori di quelle persone che vivono dentro una narrazione fortemente ideologica, quella per cui a quanto pare la vita deve essere un tormento eterno, si riesce a trovare un terreno comune». E poi, a conferma di quanto il tema al centro della protesta sia trasversale, dice: «La questione dell’abitare affligge tutti e basta un attimo per rendersi conto di avere sgradevoli esperienze comuni: dai sacrifici per pagare gli affitti alle case fatiscenti. Non direi quindi che la gente è apertamente disinteressata, direi piuttosto che va di fretta, che non ha tempo: se le persone hanno un attimo per fermarsi riconoscono molto velocemente che non è una gran bella vita pagare metà dello stipendio solo per un tetto sotto cui dormire».