“Senza Olio di Palma”, “senza glutine”, “senza grassi saturi”, senza senza senza… Negli ultimi anni quello del “senza” è stato un mantra comunicativo di un certo successo che, iniziato con prodotti per i quali l’aver eliminato una componente nociva era oggettivamente un progresso importante – uno per tutti la benzina senza piombo – si è poi allargato a mille altre referenze. Ma siamo proprio sicuri che eliminare alcune componenti sia sempre e comunque un progresso in termini di qualità e sostenibilità di un prodotto e che questo protegga meglio la salute del consumatore? In realtà c’è molto da dubitarne. Tutti i dietologi, ad esempio, sono concordi nel dire che una dieta senza glutine è da riservarsi unicamente ai soggetti che soffrono di celiachia, mentre per chi non evidenzia problemi di questo tipo il glutine rappresenta una risorsa importante per l’organismo la cui prolungata privazione espone a maggiori rischi di patologie cardiovascolari, osteoporosi e altre ancora. In questo caso, quindi, sull’altare del marketing e della moda del “senza” si possono produrre danni alla salute anziché benefici.
Su un piano diverso, ma altrettanto discutibile, c’è il caso dell’olio di palma. Decine di referenze – dai biscotti alle merendine alle creme spalmabili – hanno visto comparire sulle etichette l’aggiunta “senza olio di palma”. Abbiamo assistito a una vera demonizzazione di questo grasso che si è fondata su tre pilastri davvero importanti che hanno fatto buona presa sull’opinione pubblica: da un lato la salute dell’uomo, dall’altro la salute dell’ambiente e, dall’altro ancora, la sopravvivenza degli animali, in particolare degli Oranghi. In altre parole: l’olio di palma fa male alla salute, le coltivazioni intensive producono danni ambientali e distruggono l’habitat nel quale vivono gli oranghi. Un mix non da poco, dove i diversi problemi si intrecciano in modo quasi inestricabile. Ma la complessità non si ferma qui. Infatti la medaglia ha anche molte altre facce che sarebbe pericoloso e fuorviante non considerare: l’aumento della popolazione determina necessariamente un aumento della domanda di grassi alla quale va data una risposta e l’olio di palma è un componente di questa risposta perché ha caratteristiche organolettiche positive, una resa per ettaro notevolmente superiore a quella di altre colture, offre un contributo nutrizionale molto valido. Inoltre, la sua produzione concentrata in paesi ad alto tasso di povertà consente un miglioramento delle condizioni di vita e di alimentazione di quelle popolazioni. In ultimo, anche il consumatore dei paesi sviluppati dovrebbe chiedersi quali sono i componenti con i quali le industrie alimentari sostituiscono l’olio di palma. Quali garanzie hanno che siano più salutari? Ma, soprattutto come si può uscire da questa situazione contraddittoria, apparentemente insanabile?
Ambiente
“Credo che si debba partire da una consapevolezza: i problemi complessi non hanno soluzioni semplici – afferma Mauro Fontana, Presidente dell’Unione Italiana Olio di Palma Sostenibile, nata nel 2015 per iniziativa di un gruppo di aziende e associazioni attive in vari settori merceologici. – E il problema complesso è quello della nutrizione sostenibile della popolazione mondiale. Cioè si tratta di garantire la giusta nutrizione alla popolazione globale e contemporaneamente il rispetto dell’ambiente e delle persone”. Occorre avere la consapevolezza che la soluzione a questa sfida può venire solo dal ricorso a opzioni diverse e non dall’esclusione di un prodotto a favore di un altro.
Ad esempio c’è stata una fase in cui si è privilegiato l’olio di girasole proprio per evitare l’olio di palma, ma questa scelta su vasta scala ha aperto una serie di problematiche altrettanto gravi se non più gravi. La soluzione non può quindi che tenere conto di una serie di compatibilità e di considerazioni.
“Sul fronte ambientale, da parecchio tempo – continua Fontana – la produzione di olio di palma è sempre più orientata alla sostenibilità, sempre di più i paesi produttori stanno certificando le loro produzioni in modo che le industrie alimentari e di conseguenza i consumatori possano avere garanzie. Si devono evitare le contrapposizioni, al contrario bisogna sviluppare sia la produzione di olio di palma sia quella di altri olii vegetali: solo così possiamo aumentare la produzione e soddisfare la domanda crescente minimizzando l’impatto ambientale e massimizzando la disponibilità di cibo, garantendo sicurezza alimentare a una popolazione mondiale in crescita”.
Tra l’altro recenti ricerche hanno dimostrato che la produzione di olio di palma non è la principale causa di deforestazione del mondo e che anzi la sua incidenza sul fenomeno è in netto calo dal 2015 ad oggi. I dati rilanciati dai satelliti che “raccontano” lo stato del nostro pianeta dimostrano che la reputazione negativa dell’olio di palma non è giustificata dalle evidenze scientifiche e che la sua filiera può essere considerata un esempio virtuoso di come sia possibile ridurre gli impatti negativi ricorrendo a rigide politiche di sostenibilità e di controllo.
E la salute dell’uomo?
Come si è detto, l’olio di palma è stato messo sotto accusa anche sotto il profilo nutrizionale. Questo fenomeno per fortuna oggi è decisamente in remissione. Del resto, come ha affermato in un recente convegno il professor Sebastiano Banni, ordinario di fisiologia all’Università di Cagliari, “l’acido palamitico – componente dell’olio di palma – è tra i più comuni acidi grassi nel nostro organismo. Nel corpo di un uomo di 70 kg sono presenti almeno 3,5 kg di acido palmitico. La quantità di acido palmitico che si assume attraverso la dieta è minima (circa 20 g al giorno) una goccia nel mare rispetto al quantitativo naturalmente presente nel nostro corpo. Inoltre, l’acido palmitico è presente in moltissimi alimenti di consumo abituale, basti pensare che nella comune alimentazione mediterranea le principali fonti di acido palmitico sono i latticini e l’olio di oliva e non l’olio di palma.
“È quindi impossibile immaginare una dieta priva di acido palmitico, che risulterebbe in ogni caso inutile se non dannosa per la salute, visto che questa componente nutrizionale gioca un ruolo fondamentale per l’organismo. Purtroppo, – ha concluso Banni – spesso si preferisce la politica del “senza”, che anche in termini di salute pubblica non porta alcun vantaggio”.
Conclusione
Un miliardo e 300 mila tonnellate di cibo vengono sprecate – fonte FAO – ogni anno nel mondo. Ogni 4 secondi una persona muore per fame, 345 milioni di individui soffrono di fame acuta e altri 50 milioni di persone si stanno aggiungendo a questa terrificante contabilità dell’indigenza. Sono numeri spaventosi e in un periodo in cui si parla – e straparla – di sostenibilità la buona informazione diventa uno strumento non secondario nella lotta al miglioramento della vita sul pianeta. Le semplificazioni e il cattivo marketing non aiutano a risolvere i problemi.