Col trionfo della regista francese Justine Triet e del suo Anatomie d’une chute (Anatomia di una caduta), è solo la terza volta in 70 anni che la Palma d’Oro del Festival del Cinema va a una donna. A rimarcare la portata del cambiamento è stata Jane Fonda che, premiando il film vincitore, ha ricordato la sua prima volta alla Croisette nel 1966: “Non c’era nessuna cineasta in concorso e non ci sembrava nemmeno che fosse qualcosa di strano”.
La Palma d’Oro 2023 non è una pellicola militante femminista, ma un thriller psicologico sul caso giudiziario di una donna sospettata per la tragica morte del marito. Il tema della “donna” è stato più centrale che mai, come non succedeva da tempo, affrontato sia dalle tante registe in concorso che dai colleghi uomini.
Una menzione particolare merita il film d’apertura della Quinzaine des cinéastes, Den Muso (La jeune fille) di Souleymane Cissé. Realizzato nel lontano 1975, il film racconta la tragedia di una ragazzina incinta che viene ripudiata dal padre e che, come ha voluto precisare il suo autore, rispecchia una realtà purtroppo “ancora molto attuale, in Africa”. Nel film l’attrice protagonista è muta, così da sottolineare la condizione delle donne in Africa a cui non è dato diritto di parola.
Dall’altra parte del mondo, in Afghanistan, a causa del ritorno dei talebani la condizione femminile è peggiorata dal 2021. Col suo docufilm Bread and Roses, la regista Sahra Mani apre una finestra su quell’area del mondo e con la telecamera segue un gruppo di attiviste pronte a tutto per rivendicare i diritti delle donne sul fronte del lavoro, dei salari e della libertà.
Alla presentazione del documentario, una delle tre protagoniste, una dentista di professione che ha dovuto chiudere il suo studio e che è stata imprigionata e torturata, ha detto: “Ciò che conta è che il film possa circolare, per mantenere viva la nostra lotta e per non farci sentire sole: il film è dedicato a tutte le donne afghane. Nei vostri Paesi non vi rendete conto di cosa succeda in Afghanistan alle donne, è troppo lontano da voi, vi sembrerà impossibile. Ma vi preghiamo di non dimenticare la nostra battaglia e di tenere viva la nostra storia, in nome di tutte le donne che lottano per riconquistare i diritti, o che sono in prigione o scomparse”.
È un dramma potente a tema femminile anche quello che arriva dalla Giordania con Inshallah a boy del regista Amjad Al Rasheed, presentato alla Semaine de la critique. La pellicola racconta la storia di una giovane vedova in lotta per godere dell’eredità del marito e proteggere sua figlia contro l’intrusione e la violenza di un patriarcato rappresentato da fratelli e cognati.
Dalla Turchia arriva un grido di denuncia. L’attrice turca Merve Dizdar, premio per la miglior interpretazione femminile con il film Kuru Otlar Ustune (Les Herbes sèches) di Nuri Bilge Ceylan, ha voluto dedicare il suo riconoscimento a tutte le donne che lottano. “È molto difficile essere una donna dal primo giorno in cui veniamo al mondo – afferma l’attrice -. Le donne sono costrette a combattere. Una donna equivale a una lotta, e la lotta implica speranza”.
Dalla Tunisia e dal Marocco, invece, sono arrivati due documentari che mettono in luce non la lotta, ma il peso di tradizioni secolari. Due docufilm che hanno entrambi vinto l’Oeil d’or grazie al coraggio e l’innovazione di due registe, Kaoutherf Ben Hania, tunisina, con il suo Les Filles d’Olfa e Asmae El Moudir, marocchina, con La Mère de tous les mensonges. Le due cineaste si distinguono per l’originale modo di raccontare, rompere i silenzi e superare i traumi trasmessi di generazione in generazione. Le loro sono due storie intime, catartiche, molto terapeutiche e introspettive.
Dal Senegal, Banel e Adama, il film di Ramata-Toulaye Sy che era in competizione nella selezione ufficiale, non vuole dare lezioni alle donne africane. “Il mio obiettivo personale – ha spiegato la regista – è il posto della donne nella società contemporanea, il posto di tutte le donne in tutte le società. Non parlo solo alle donne africane, ma voglio parlare a tutte le donne, asiatiche, sud americane e anche agli uomini”.