C’è un filo robusto e ininterrotto che lega il nostro giornale al suo modo di vedere e affrontare le questioni della comunicazione in questa “epoca ibrida”. È un filo che annoda e tiene assieme i temi del purpose e dell’attivismo delle aziende con la cultura della sostenibilità e della solidarietà, per generare impatti positivi su comunità e ambiente. Un comune sentire che ci riporta, a due anni dalla precedente intervista in pieno lockdown, a conversare ancora di “pubblicità e brand al servizio della società”, come recita il sottotitolo del suo nuovo libro Scrivere civile (Luiss University Press).
«È nato a margine della lectio di conferimento della laurea ad honorem in “Comunicazione e Pubblicità per le organizzazioni” che ho tenuto l’anno scorso a Urbino», esordisce Paolo Iabichino, prima di raccontare che la sua genesi è molto simile a quella di Invertising, il saggio con cui 13 anni fa raccontò la necessità di un’inversione di marcia della pubblicità, diventata “una sorta di pianta infestante con una fastidiosa propensione a conquistare spazi fisici”. «Anche quel primo lavoro deve la sua nascita a un eccesso di scrittura. Il Sole24Ore mi chiese di preparare un articolo dedicato al concetto di “invertising” che avevo presentato durante un intervento pubblico e mi ritrovai a scrivere un testo molto più lungo del previsto. Era una quantità di materiale incompatibile con lo spazio disponibile sul giornale, ma che pure non volevo buttare: da lì venne fuori l’idea del volume. Più o meno la stessa cosa è successa con Scrivere civile. Ho scoperto solo dopo aver consegnato il mio manoscritto per la lectio magistralis che avrei avuto a disposizione 25 minuti al massimo. Allora, non volendolo sprecare, con il testo in eccesso ho prodotto prima un podcast che è finito su Spotify e poi ho costruito l’impalcatura di questo nuovo libro».
Prima del nuovo saggio, due anni fa, Iabichino aveva firmato anche la prefazione dell’edizione italiana di Brand Activism del papà del marketing moderno, Philip Kotler. «Quando ci troviamo ad affrontare questi temi, che sono quelli del purpose e del brand activism, lo sguardo che usiamo è sempre anglosassone, rivolto al marketing d’oltreoceano e ai grandi professori, come Kotler appunto. Trascuriamo invece una riflessione mediterranea che nasce qui, a metà del 18esimo secolo, all’Università di Napoli, con l’economia civile di Antonio Genovesi: e questo è un primo punto del mio nuovo libro. Il secondo punto è che volevo in qualche modo mettere a fattor comune la straordinaria esperienza fatta insieme a Ipsos con l’Osservatorio Civic Brands e il format 2030, grazie al quale abbiamo intervistato 20 brand in 30 minuti facendoci raccontare il loro modo di stare sul mercato secondo queste logiche. Il format è stato così apprezzato che abbiamo deciso di metterci al lavoro per farne una seconda edizione».
Come Iabichino spiega nelle prime pagine di Scrivere civile, è oggi quanto mai necessario che la pubblicità cambi pelle e si faccia civile. Che si rivolga, cioè, a un nuovo tipo di individui, che non premi più la voracità del profitto a tutti i costi, ma che faccia di ogni acquisto una scelta etica.
«La pubblicità civile» chiarisce, «tratta i consumatori come cittadini e cittadine e non più soltanto come target di consumo. La pubblicità civile diventa tale quando ribalta i paradigmi e spinge all’azione, quando costruisce narrazioni che siano davvero al servizio del bene pubblico, quando si pone come obiettivo un impatto sociale e culturale che migliori la società intera».
Il libro è organizzato in due parti distinte. Nella prima Iabichino affronta gli aspetti più rilevanti della comunicazione – dall’”impronta” della pubblicità alla sua “credibilità” e al suo possibile “attivismo” – classificandoli attraverso la metafora dell’anatomia umana: spina dorsale, linfa, muscoli, pelle, cuore e voce. «Sento che è necessario tracciare una sorta di anatomia dello scrivere civile per costruire qualcosa che assomigli sempre di più alle persone a cui si rivolge e in cui queste stesse persone si possano riconoscere davvero».
Nella seconda parte del saggio, introdotte da Francesca Petrella e Andrea Fagnoni di Ipsos Italia, sono invece raccolte alcune delle voci più interessanti tra i “civic brand” italiani – da Patagonia ad Altromercato, Almo Nature, Conad, Too Good To Go, Citrus, Fondazione Olivetti. Sono riflessioni nate dalle interviste “2030: 20 brand in 30 minuti” e fanno luce su quelli che sono i comportamenti virtuosi, le nuove posture che le aziende sono chiamate a rispettare per stare sul mercato. «Perché» osserva Iabichino, «il civismo dei brand non può essere solo una buona pratica di comunicazione, ma deve dimostrarsi anche e soprattutto nei modelli di business».
Le parole dello scrivere civile e dell’azienda sostenibile
Rispetto a qualche anno fa, lo dicono anche i sondaggi, esiste una consapevolezza più larga – tanto fra i brand quanto fra i consumatori – dei rischi legati ai cambiamenti climatici e alle diverse crisi ambientali che gravano sul nostro presente e sul futuro delle nuove generazioni. Ma esiste anche un problema di assuefazione a questo genere di notizie e al modo in cui evidentemente vengono date. Oltre a una dilagante povertà lessicale, assistiamo allo sterile rifiorire di slogan e luoghi comuni, evidentemente insufficienti a motivare e spingere la gente all’azione, a ispirare prese di posizione che possano generare un vero impatto positivo sul mondo. Quali sono o dovrebbero essere, allora, le parole dello “scrivere civile”?
«Sono parole antiche che vengono “risemantizzate” alla luce di queste considerazioni. Non ci sono parole nuove, ma esiste una riflessione più adulta e consapevole su quanto alcune parole siano state svuotate di significato per obbedire ad artifici retorici e a narrative superseduttive, quelle che nel libro definisco “ipernarrazioni”. Sostenibilità è una parola che è stata “desemantizzata” nella misura in cui viene letta soltanto in chiave ecologica e ambientale. Nel momento in cui la allarghi e la risemantizzi parlando anche di sostenibilità sociale ed economica, allora puoi finalmente scriverla con la S maiuscola. Un altro esempio? Pensa alla parola “comunità”, una parola completamente dimenticata dal nostro mestiere. Anche questa è stata completamente desemantizzata in passato perché abbiamo obbedito alla sua versione anglofona, “community”, che significa tutt’altro e che ci è stata venduta dalle piattaforme sociali fino a diventare un oggetto media. Si direbbe che è stata televisivizzata, perché l’unica prerogativa di questa parola erano i GRP (Gross Rating Point, NdA), le logiche quantitative. E invece “comunità” è una parola straordinaria, una parola che incontriamo da subito nelle prime scritture di Antonio Genovesi nel 1750 che tanto hanno insegnato alla nostra imprenditoria. Si pensi agli Olivetti, ai Pirelli, ai Branca, ai Crespi, ai Zegna, tutta gente che non faceva industria senza prima pensare alla propria comunità. Le parole civili, insomma, sono parole vecchie che vengono però scritte con le lettere maiuscole. A me piacerebbe che quando parliamo di inclusione si parlasse di inclusione vera e non di diversity & inclusion per darci un tono e una nuova job description su LinkedIn. Ci sono aziende che hanno un responsabile della diversity & inclusion, ma poi nei loro consigli d’amministrazione si vedono 10 cravatte e un tailleur. Voglio dire: partiamo dai fondamentali e proviamo a capire se queste parole possono ritornare ad avere un senso. Ed evitiamo che siano delle semplici buzzword per confortare gli investitori, senza alcun impatto sulla “collettività”, altra parola di cui dover tenere conto».
Investitori, aziende, economia. Le crisi degli ultimi due anni suggeriscono una profonda revisione del sistema dei profitti. È stata soprattutto la pandemia ad averci fatto capire che siamo giunti a un punto di non ritorno e che il nostro modo di produrre, consumare e stare al mondo deve cambiare radicalmente. Per quanto paradossale possa apparire, siamo debitori nei confronti del Covid. «Mesi fa avevo concepito una piattaforma digitale e sto aspettando che i tempi siano maturi, che si calmino un po’, per rilasciarla. È una piattaforma che avevo intitolato “Grazie Covid” e che vuole ospitare una serie di riflessioni sociologiche, antropologiche, economiche, filosofiche, religiose su quelli che potrebbero essere gli insegnamenti generati dalla pandemia, da quelli che il nostro stesso Papa ci invita a considerare fino a quelli dell’ultimo dei pensatori. In generale, però, ho l’impressione che la lezione della pandemia non sia ancora stata colta nella sua sistematicità. Nonostante ci sia un evidente tema di interconnessioni, non riusciamo a ragionare in maniera sistemica. Si pensi alla parola “sostenibilità”, per esempio: oggi il primo livello di interpretazione e di lettura che arriva a livello semantico è quello della sostenibilità ambientale ed ecologica. Eppure oggi un’azienda sostenibile è un’azienda che riesce ad avere la sostenibilità come asset e come driver delle proprie strategie e del proprio modo di stare sul mercato, tanto in termini ambientali quanto e soprattutto in termini economici e sociali. In termini che afferiscono ad altre attività che possiamo chiamare “civili”».
In poche parole, l’ambientalismo delle aziende dovrebbe essere dato per scontato: un prerequisito per poter esercitare la propria attività produttiva. «Esatto, vorrei non dover più parlare di sostenibilità ambientale. A me fa ridere parlare di greenwashing quando, fra due o tre anni, probabilmente nessuno potrà più permettersi il lusso di fare greenwashing perché sarà destinato a uscire dal mercato. Il greenwashing è una furbizia, una malizia retorica di queste ore perché la sostenibilità ambientale è un hype. Ma se cominciamo a riflettere sulla parola sostenibilità in maniera più ampia, coinvolgendo tutta una serie di semantiche che oggi sono trascurate, ci rendiamo conto delle molteplicità di interconnessioni che ci sono fra uomo e ambiente, fra ambiente e tecnologia, fra tecnologia e natura. Non possiamo più considerare questi capitoli come silos indipendenti, come compartimenti stagni perché, invece, sono categorie che per osmosi si contaminano».
È una contaminazione che, evidentemente, deve allargarsi anche alle funzioni interne alle imprese. «Il reparto Marketing e comunicazione deve parlare con chi si occupa di Sostenibilità nell’azienda. Sostenibilità deve parlare con Relazioni pubbliche, Relazioni Pubbliche deve parlare con Ricerca e sviluppo, Ricerca e sviluppo deve parlare con Risorse umane: anche i tavoli di lavoro, insomma, sono interconnessi. Poche ore fa ho partecipato a un tavolo di lavoro straordinario sui temi della sostenibilità tout court per una grande industria italiana e all’ultima call su Zoom eravamo in 28. Io ero da solo, e loro in 27: c’erano tutte le funzioni aziendali di primo livello, e il primo a prendere la parola è stata la persona responsabile della sostenibilità, stupefatta e contenta di potersi rivolgere finalmente a una moltitudine di colleghi e colleghe per parlare di 2023, 2024 e 2025. Era la figura cardinale attorno alla quale ruotavano tutte le riflessioni che andavano fatte per il triennio a venire».
Le piattaforme digitali, il brand journalism e il Newtrain
Se nel mondo fisico le pubblicità conquistano spazi – annota Iabichino sulle pagine di Scrivere civile -, in quello digitale vanno soprattutto a caccia di tempo e attenzione. Gli annunci online ormai ci seguono, o forse ci perseguitano: sembra di stare di fronte a una nuova epoca di pubblicità gridata, perché i messaggi pubblicitari ci raggiungono dappertutto e in ogni momento della giornata, ce li portiamo letteralmente appresso, nei nostri smartphone. Crescono e spuntano come funghi sui nostri social. Nel 2009 Iabichino aveva paventato il rischio che YouTube e Facebook potessero diventare una specie di nuova televisione e che bisognava perciò cambiare la comunicazione pubblicitaria per quelle piattaforme. «Non per fare quello del “ve l’avevo detto”, ma insomma, illudersi che su quelle piattaforme si potesse fare relazione e instaurare e innestare delle dialettiche di fiducia senza avare piena coscienza dei dati, a me sembrava quanto meno un miraggio. Lo scenario che si sta offrendo, purtroppo, mi sembra non essere dei più incoraggianti. Come temevo, i progetti di comunicazione sono diventati strategie media per aggredire un pubblico sempre più ampio e la creatività sui social si sta trasformando in una commodity da mettere in gara e comprare al ribasso, con le piattaforme vendute un tot al chilo dai centri media». Fenomeno temporaneo o situazione irreversibile? «Non so se siamo al capitolo finale, ma siamo di sicuro a un giro di boa che, paradossalmente, sta recuperando una relazione diretta tra i brand e le proprie interlocuzioni che sembra obbedire a delle dinamiche valoriali e qualitative piuttosto che quantitative. Mi pare cioè che le aziende, i brand – senza distinzione di industria, né di B2B o B2C – abbiano finalmente capito che una newsletter ben scritta vale di più di una sponsorizzata su Instagram. E credo di non sbagliare se dico che se riusciamo a non farci irretire dalle narrative metaversiane che ci sta imponendo Meta, i metaversi potrebbero diventare degli spazi ibridi di nuove relazioni con le utenze e di nuove esperienze, purché si rinunci a un certo tipo di euforia che ultimamente arieggia attorno a queste tematiche. Perché fondamentalmente stiamo tutti obbedendo alla narrativa di Meta, mentre invece, secondo me, i metaversi potrebbero essere degli spazi di relazione fra virtuale e analogico, di esperienze straordinarie in cui incontrare i propri pubblici e in cui fare sperimentazioni, spazi che premino veramente la qualità della relazione, la trasmissione di valori e non necessariamente la transazione commerciale. Credo che da lì, fra qualche anno, potrebbero davvero arrivare delle belle sorprese».
C’è poi il cosiddetto “Brand Journalism”, ovvero il “giornalismo applicato alla marca” a cui sempre più aziende stanno ricorrendo per sviluppare una comunicazione più condivisa e partecipata, anche se c’è sempre il rischio di scivolare nell’autoreferenzialità.
«È qualcosa di cui mi sono occupato spesso in passato. Nel mio libro del 2017 Scripta volant ho dedicato un intero capitolo al tema e alcuni dei miei progetti più importanti si muovono all’interno di questo fenomeno, di questa progettualità. Ci sono anche diversi oggetti editoriali, sia nel B2B che nel B2C, che si sforzano di creare questo tipo di dinamica narrativa che si affida al reportage, al racconto giornalistico. In un momento in cui i consumatori e le consumatrici cercano una relazione con le aziende che sia più confortante da un certo punto di vista, il conforto lo offri attraverso i valori che metti in scena, non con i prodotti che vendi. È davvero un modo per “fidelizzare”, nel senso di “creare fiducia”, e non certo attraverso raccolte punti. Questa modalità sta dando dei risultati straordinari ad alcuni brand. Pensa all’esplosione dei podcast, media che per molte aziende rappresenta una vera scoperta. Proprio in queste ore, grazie al lavoro con GoodMood, stiamo rilasciando un podcast per il brand Dolomia. Si tratta di un prodotto di bellezza, il cui racconto di valori che c’è dietro sarebbe impossibile racchiudere in uno spot di 30 secondi: hai quindi bisogno di un oggetto editoriale. Il podcast fa brand journalism da questo punto di vista. Al consumatore arriva un racconto molto suggestivo che nulla ha a che fare con le seduzioni della pubblicità».
Raccontare e prendere posizione. In un mercato governato da internet è l’ora che le aziende che desiderano riposizionarsi facciano scelte “coraggiose”. «Lo sostenevano già nel 1999 i ragazzi del Cluetrain Manifesto», rifletteva Iabichino nella nostra scorsa intervista. «Sottolineavano quanto fosse importante, in un mercato interconnesso qual è quello che si è poi realizzato con la diffusione capillare di internet e dei social media, che ogni brand stabilisca nella dialettica con il consumatore una relazione di tipo valoriale e, volendo, anche ideologica, spingendo l’azienda a esporsi anche in prese di posizione politiche su tematiche anche controverse, come i diritti LGBT, per esempio». Riletto vent’anni dopo, nel 2019, dai ragazzi e dalle ragazze della Scuola Holden e ribattezzato Newtrain, quel manifesto ha dato vita a 30 nuove tesi indirizzate a “chiunque si cimenti con il fare impresa oggi, piccola, media o grande che sia”. E se, come sottolinea Iabichino nel nuovo libro, nel 1999 era necessario un cambio di prospettive e un’inversione di marcia per rimanere al passo con le nuove dinamiche che internet stava imponendo e mettere fine al business as usual, oggi siamo di fronte a un nuovo scontro, molto più urgente, che ha a che fare con la sopravvivenza della specie. Alla luce di emergenze globali che appaiono sempre più drammatiche, l’incapacità degli adulti di leggere e abbracciare le spinte rigenerative che arrivano dai più giovani è il segnale di quanto si sia inasprita la contrapposizione fra vecchie e nuove generazioni.
«In assenza di ascensori sociali – e questo non lo dico io ma lo dice la politica – è evidente che il conflitto generazionale è destinato ad essere esasperato. Ciascuna delle parti in causa deve sgomitare per guadagnare o conservare il proprio posto nel mondo e questo, purtroppo, è un dispetto imperdonabile che noi stiamo facendo alle nuove generazioni. In questo momento è come se ci fosse una frattura netta. Quello che fino a qualche anno fa poteva considerarsi uno scontro generazionale sano – uno scontro inteso come incontro, come scambio di reciprocità -, oggi non lo è più. La frattura la registri soprattutto all’interno delle aziende, quando vedi il responsabile delle Risorse umane che si danna per riuscire ad amalgamare i neolaureati e le neolaureate con le vecchie guardie che guardano quasi con sospetto i nuovi arrivati e viceversa. È come se si delegittimassero a vicenda, provocando un grossissimo problema di organizzazione, quando in realtà esistono potenzialità enormi tanto nei nuovi ingressi quanto nelle fasce più senior della popolazione aziendale che portano un carico di esperienza e di storicità straordinario. E invece niente, è come se in questo momento non riuscissimo a creare questo tipo di congiunzione. Ne avevo scritto anche in Ibridocene, parlando di polarizzazioni che devono convergere. Questa è una delle polarizzazioni più importanti che oggi non riusciamo a far convergere. Uno dei motivi per cui il Cluetrain Manifesto non venne accolto con favore nel 1999, quando venne scritto, era proprio la questione generazionale: era scritto da due hacker e due giovani hipster della controcultura californiana che non vennero minimamente presi in ascolto dai grandi ceo dell’industria americana. Oggi che sono un po’ più grandicelli e che su questi temi forse qualche ragione hanno dimostrato di averla, ecco che vengono finalmente considerati».
Greta, le tribù e i totem
Emblematico della grande contrapposizione generazionale che sta segnando il nostro tempo resta il “caso” Greta Thunberg, entrata timidamente in scena il 20 agosto del 2018, quando seduta per terra fuori dal Parlamento svedese, esibiva un cartello con la scritta “Sciopero scolastico per il clima”. Da allora, puntualmente bersagliata e irrisa da una larga schiera di adulti, ha conquistato un’intera generazione di giovani attivisti che hanno cominciato a fare proprie e a portare in piazza le battaglie della ragazza svedese. Nel suo poderoso libro The Climate Book, Greta parla a più riprese di inazione e di responsabilità, sia individuali che delle industrie, dei governi e dei media. “Se non vediamo nessuno comportarsi come se fossimo nel mezzo di una crisi – scrive – pochissimi di noi capiranno che è esattamente lì che ci troviamo”. In altre parole – sostiene Greta -, “dire che siamo di fronte a un’emergenza conta ben poco se nessuno agisce come se fossimo di fronte a un’emergenza”. Il vecchio meccanismo dell’emulazione, insomma, continua a essere centrale.
«Quello che dice Greta è straordinariamente vero. Esistono dei modelli di comportamento virtuosi che oggi possono essere presi in considerazione. Dobbiamo decidere se quei modelli oggi ce li aspettiamo dai singoli, dai testimonial, dagli influencer (ride ironico, NdA) o dalle comunità. Io credo che la grossa partita si giochi un po’ meno sull’emulazione individuale e un po’ di più sulle iniziative di gruppi di persone, le cosiddette tribù… ecco una parola da recuperare in maniera nuova: “tribù”. Per anni l’abbiamo desemantizzata, riferendola al marketing tribale, virale, quando invece, a ben pensare, è una parola straordinaria. Quando la scrivi con la T maiuscola significa che tutti insieme abbiamo un unico riferimento a cui guardare, uno stesso totem. E quello di Greta è l’emergenza climatica, è la crisi esistenziale che stiamo attraversando. Pensa come è stata straordinaria la risposta della comunità scientifica di fronte all’emergenza Covid: in undici mesi sono stati dimenticati le competizioni tra Paesi e l’antagonismo tra le industrie. Il gruppo di ricerca scientifica che ha lavorato al vaccino è un gruppo multidisciplinare, mondiale, fatto di ricercatori e ricercatrici provenienti da tutto il mondo. Avevano tutti un unico obiettivo, lo stesso totem a cui guardare: un vaccino per rispondere a un’emergenza senza precedenti».