Con la sua agenzia di frontiera sta rimettendo al centro il libero pensiero, contaminando i linguaggi con originalità e intelligenza e producendo contenuti che combattono i pregiudizi e fanno riflettere su nuove prospettive. Il suo nome è Alice Siracusano e l’agenzia di brand journalism, content marketing e network internazionale di autori, fondata insieme a Roberto Minetto, si chiama LUZ.
Laureata in Finance and Administration all’Università Bocconi, Alice Siracusano è amministratrice delegata e socia di maggioranza di LUZ dal 2017. In questi giorni l’agenzia ha inaugurato i suoi nuovi uffici in via Castel Morrone a Milano grazie al progetto firmato dallo studio Migliore+Servetto.
Negli ultimi anni, con Nati per cambiare (vedi l’omonimo libro pubblicato nel 2021 da Guerini Next), Alice Siracusano sostiene e promuove il cambiamento all’interno della mentalità imprenditoriale contemporanea basandosi sulla filosofia educativa del Reggio Emilia Approach.
Uno dei capisaldi di questo approccio, promosso negli anni Sessanta dal pedagogista Loris Malaguzzi, è la considerazione che l’ambiente fisico e sociale rappresenti un “terzo educatore” a tutti gli effetti. Da qui la spinta a riorganizzare gli spazi dell’agenzia, a partire dagli arredi. Le strutture, la scelta dei materiali e il modo in cui vengono predisposti gli spazi – sottilinea LUZ – costituiscono un invito all’esplorazione e alla comunicazione con l‘ambiente, diventando parte integrante del processo di sviluppo tanto sociale, quanto cognitivo ma anche relazionale, emotivo e creativo di chi li vive. In sintesi, non devono essere i luoghi a dare una direzione alle persone, ma devono essere le persone a darsi e a trovare una direzione, anche negli spazi.
Applicando questa logica al contesto aziendale, gli uffici di LUZ sono stati ripensati come luoghi di lavoro capaci di mettere le persone al centro e quindi creando le condizioni adatte per stimolare l’innovazione, il cambiamento e la crescita tra persone. «Abbiamo pensato allo spazio di lavoro in maniera diversa, come un luogo di sperimentazione in cui prende vita la creatività e la libertà. Perché è proprio a partire dal contesto che dobbiamo stimolarle», racconta Alice Siracusano.
Vulcanica, gentile e attenta, Alice Siracusano ha partecipato al processo che in Italia e nel mondo ha rivoluzionato la pubblicità, portandola dal regno degli stereotipi che era, al fascinoso mondo, così social, delle storie di vita vera: e lo ha fatto sfruttando le armi del giornalismo.
La parola d’ordine, come suggerisce il suo libro, è “cambiare”. Ma come si cambia? «Si cambia solo se si vuole, solo se ne siamo convinti, solo se stiamo bene e siamo felici e soddisfatti, a qualsiasi livello di un’azienda: solo allora si può pensare di gestire un vero cambiamento, quando è desiderato e condiviso, e mai imposto, e quando i presupposti ci sono tutti: la soddisfazione personale e professionale (in fondo così legate l’una all’altra) è la condizione indispensabile anche per chiedere ai dipendenti uno stile di vita sostenibile».
Nella nostra intervista pubblicata alcuni mesi fa sul nostro magazine, Alice Siracusano approfondisce il suo punto di vista su aziende e benessere dei dipendenti, sostenibilità e greenwashing, e sull’impatto dei social media sulla comunicazione pubblicitaria.
Come fa oggi un’azienda a diventare sostenibile, a partire dai suoi dipendenti?
«Si parte dal benessere delle persone. Si parte sempre dal benessere delle persone. Non possiamo sperare di ottenere risultati, se le persone a cui ci rivolgiamo non stanno bene o non sono serene. Non possiamo chiedere loro di fare qualcosa per la collettività, se il loro primo assillo è la loro sfera privata. Se invece dici a una persona soddisfatta che serve prendersi cura dell’ambiente, è molto più probabile suscitare un effetto. Ma come si creano le condizioni per stare bene? Servono prima di tutto condizioni di lavoro dignitose, un percorso formativo tarato sulle singole esigenze (e non un mischione in base al livello raggiunto in azienda). Inclusione, ascolto verso le diversità di ogni tipo: dal colore della pelle alle sensibilità del singolo. Una volta che sei convinto di aver lavorato bene su questo, puoi pensare di aprire al contesto esterno, creare consapevolezza e parlare di una catena di produzione che impatti meno sull’ambiente».
Cosa ne pensi del greenwashing nelle aziende? Il problema è la mancanza di controllo?
«Non ci sono controlli. Non abbastanza. Ho la sensazione che chi fa greenwashing lo faccia perché consapevole di non avere grosse conseguenze. Servirebbe un controllo terzo, super partes, e poi creare consapevolezza nelle persone. Io sono per la responsabilità individuale, ma è vero che ognuno di noi ha talmente tanti problemi nel quotidiano che non si può pretendere di risolverla con il paternalismo: non puoi delegare questa responsabilità alle persone. Ma un’azione da entrambi i lati si può pensare: le autorità competenti vigilino, e noi cerchiamo di rendere “figo” il fatto di interessarsi dell’impatto reale di ciò che compriamo. Di informarci e scegliere consapevolmente cosa acquistare».
L’ambiente è un’opportunità o un sacrificio?
«Da brava esperta di marketing so che si deve descrivere il beneficio per primo. Ma è chiaro che un discorso così – rinuncia all’auto e scegli la bici, mangia meno carne e di un certo tipo – per quanto infiocchettato, non lo puoi fare a chi ha perso il lavoro, o ha i figli a casa senza Dad: non può esserci presa nel discorso. Punto primo, sempre e comunque, mettere in condizione le persone di essere e sentirsi degne e sane. Poi arriva il discorso sull’opportunità di non inquinare».
Come nasce LUZ e in che modo ha partecipato a rivoluzionare la pubblicità?
«LUZ è il punto di arrivo di un’esperienza enorme, quella dell’Agenzia Grazia Neri, fondata negli anni ‘60 da questa pioniera del fotogiornalismo, in Italia e nel mondo. In un’epoca in cui non c’erano social o telecamere nelle tasche di tutti, Grazia Neri rende merito e spazio e dignità alla funzione dei fotografi; reporter che attraverso le foto raccontano storie di ingiustizie, conflitti e tensioni, che era giusto che le persone vedessero. Dà dignità al mestiere anche allargando e difendendo il diritto d’autore. In breve tempo, l’agenzia cresce molto in tutto il mondo. Con la crisi dell’editoria arriva la discesa, e la decisione di chiudere nel 2009: un momento prima del tracollo del settore. Un ex dipendente, Giovanni Picchi, ha però voluto raccogliere quell’esperienza. Aveva digitalizzato l’archivio per Grazia Neri, e ha riaperto l’Agenzia con il nome LUZ. Rinasceva come agenzia fotografica, ma doveva trovare una nuova via e molti furono i tentativi in ambito editoriale. Si parte dal principio che il cliente diventa editore, si aggiungono autori e autrici, ci si rivolge al genere Lifestyle ma sempre con la vocazione all’indagine, all’approfondimento. Aumentano i giornali clienti, ma si inizia anche un esperimento nel mondo della pubblicità, pur sempre intermediati da agenzie di comunicazione. In quel momento entro in gioco io, per puro caso la mia strada incrocia LUZ. In quel momento lavoravo nella comunicazione e pubblicità, che viveva una grossa crisi: c’era una sorta di “calo del desiderio” verso la pubblicità. La nascita degli adblock, o meglio, più in generale, la diffusione di internet, aveva reso gli utenti meno interessati ai messaggi generalisti, a favore di realtà cucite su loro stessi».
In che modo internet e i social hanno ucciso il vecchio modo di fare pubblicità?
«Stava emergendo il tema della persona al centro. La gente iniziava a desiderare una comunicazione su misura, ora che poteva scegliere cosa guardare. Credo che la pubblicità fosse allora troppo stereotipata, basata su schemi passati. Serviva più autenticità per passare il messaggio e far immedesimare le persone. Qui arriva e si cala alla perfezione il ruolo del reporter, che ha uno stile molto vero. Abbiamo preso questo approccio dal giornalismo e lo abbiamo prestato alla comunicazione commerciale, distillando la sensibilità che rende un racconto autentico, per portarla alla pubblicità. Così inizia la terza fase di LUZ, con importanti investimenti in assunzioni e formazione. Grazie alla fiducia dei primi clienti, l’esperimento ha funzionato. Il nuovo approccio al racconto si concretizza con una prima campagna pubblicitaria per una lavatrice. Scegliamo una famiglia vera di persone reali – fotografi – che vivono nel quotidiano i valori che dovevamo raccontare: la passione per la sostenibilità e il rispetto per l’ambiente. Il prodotto era vincente perché a forte risparmio energetico e prodotto con materiali riciclati. Nel racconto fotografico che ne seguì, durato settimane, i genitori spiegavano ai figli cosa vuol dire consumare meno e meglio. Ci furono risultati pazzeschi e una delle persone di LUZ ha poi scritto la tesi su questa campagna: su come un racconto autentico aumenti l’efficacia del messaggio. Di lì siamo ulteriormente cresciuti, con ulteriori nuovi ingressi: dal mondo della pubblicità quanto da quello del giornalismo, che appunto ha un’attenzione al racconto diversa. Oggi siamo 19, veniamo tutti dall’ambito umanistico, e viviamo e lavoriamo una filosofia manageriale improntata all’espressione individuale. La nostra prima attenzione è alle persone: con un approccio sperimentale, non imponiamo cambiamenti dall’alto ma creiamo le condizioni per spingere le persone al cambiamento attivo, desiderato. Non c’è un’altra agenzia che lavora come noi. Adesso viviamo una quarta fase in cui esportiamo il nostro modello, anche attraverso questo libro – Nati per cambiare – che racconta come il “metodo” sia esportabile ad altri settori. Il mio auspicio è che possa diventare ancora qualcos’altro. Oggi abbiamo clienti con rapporti solidi, ma quel che conta è che le persone siano felici, non frustrate. E dimostrare che questo singolo punto è importante – e porta anche fatturato – è il mio primo obiettivo».