I conflitti tendono ad essere associati a condizioni socio-idrologiche peculiari e complesse, che hanno a che fare con il valore socio-economico dell’acqua come forma di sostentamento, soprattutto in agricoltura, e con gli effetti che l’uso umano dell’acqua ha sull’accessibilità di questa stessa risorsa. Per definire la relazione tra acqua e guerre non basta insomma parlare di disponibilità, o scarsità, idrica: è il punto di partenza di uno studio italiano, condotto da un gruppo di ricercatori del Politecnico di Milano in collaborazione con l’università di Amsterdam, pubblicato sulla copertina della prestigiosa Nature Sustainability, alla luce di “nuove” tipologie di conflitto in cui gruppi paramilitari sembrano sfruttare a loro vantaggio situazioni di stress ambientale. Alla base del lavoro scientifico – “Socio-hydrological features of armed conflicts in the Lake Chad Basin” – c’è l’unione di modelli idrologici e analisi statistiche, combinate a un’attenzione particolare per i meccanismi socio-ambientali, culturali e politici, usati per studiare le caratteristiche socio-idrologiche dei conflitti nella regione del lago Ciad, in Africa centrale. La regione è stata colpita, negli ultimi 20 anni, da diversi conflitti, come l’insorgenza di Boko Haram, la guerra civile in Darfur, e i colpi di stato della Repubblica Centrafricana. Oltre ad analizzare dati sul livello di sviluppo umano, urbanizzazione nella regione e composizione etnica della popolazione, i ricercatori hanno usato un modello per creare indicatori di disponibilità di acqua e suolo per l’agricoltura e, in generale, per il sostentamento umano. Questi dati sono stati messi in relazione ai conflitti nella regione tra il 2000 e il 2015 ed è stato sviluppato un metodo che, attraverso un approccio multi-prospettiva è in grado di esplorare relazioni più secondarie, indirette e complesse all’interno del nesso acqua-conflitto. Il risultato è stato, da una parte, che i conflitti tendono a insistere sugli stessi luoghi e a espandersi verso le zone più prossime. Ma con quali tendenze? La maggior parte dei conflitti avviene in località fortemente “anomale”, dal punto di vista della disponibilità dell’acqua, rispetto al resto della regione, e il tipo di anomalia tende ad essere correlato alla dinamica del conflitto.
“Lavorando in questo modo è possibile fornire descrizioni quantitative e qualitative di particolari “pattern” ambientali associati a specifiche dinamiche di conflitto” – spiega Nikolas Galli, ricercatore del gruppo Glob3ScienCE del Politecnico di Milano, coordinato da Maria Cristina Rulli, che aggiunge: “La ricerca socio-ambientale, socio-idrologica e idrosociale sta spingendo i confini accademici verso l’integrazione delle scienze naturali e sociali per produrre rappresentazioni più accurate dei sistemi socio-ecologici. Il nostro studio fornisce un nuovo approccio metodologico e nuove informazioni per comprendere i conflitti per le risorse naturali in un caso di studio con una lunga storia di (errate) rappresentazioni scientifiche sia da parte di scienziati naturali e sociali sia da parte degli amministratori politici”. In definitiva, l’analisi elenca le strategie di ricerca che possono contribuire a creare nuovi tipi di evidenza scientifica delle interconnessioni tra ambiente, società e conflitti, ovvero creare misure di disponibilità idrica che tengano conto dell’importanza dell’acqua per il sostentamento umano, porre l’attenzione sui meccanismi che si generano quando una risorsa viene usata in modo diseguale, ed evitare le semplificazioni eccessive quando si considerano fattori ambientali in analisi sociali.