La vulgata comune racconta che il sistema imprenditoriale italiano ormai da tempo ha perso la propria spinta innovativa. Se questo è forse vero nell’ambito dell’ICT (Information communication technology), non lo è nell’economia reale. Soprattutto nei settori ad alta creatività come design e fashion, in Italia, l’innovazione di prodotto “fisico” è ancora una realtà riconosciuta da tutto il mondo. Quarant’anni dopo l’esplosione di Giorgio Armani, i nostri stilisti continuano a sorprendere innovando e rinnovando. Questo accade non solo nei mega gruppi ma anche a livello di realtà più piccole.
La storia di Giuseppe Patanè, già direttore creativo a Parigi della maison Pierre Cardin, e attualmente stilista in proprio, ne rappresenta una conferma. Siciliano, 59 anni, Patanè ha appena creato una nuova concezione di abito che tiene anche conto delle esigenze ambientalistiche. Ecco cosa ha rivelato a The Map Report.
Maestro Patanè, ci illustra il suo più recente progetto?
Patanè: «Per rendere innovativo un abito bisogna renderlo unico. Io sono alla ricerca dell’autenticità. Vorrei dare vita a un progetto di moda, nel segmento del lusso. Prevedo di creare un laboratorio di bellezza, armonia e concretezza per le donne, mettendo in primo piano un’eleganza rinnovata. Sono riuscito a sintetizzare il tutto attraverso un particolare tipo di tessuto, costituito da materiali ricercati. È realizzato in polvere di diamanti, in modo da donare pregio e raffinatezza al vestito, oltre che un’eleganza che non “urla” e non si esibisce. Si può definire “tessuto diamantato”, non è venduto né a metro né a peso, ma a carati secondo un mio brevetto. Per la prima volta al mondo viene venduto quindi un vestito a carati, il che si traduce in un lusso particolare, chiaramente molto costoso. Il capo inoltre non ha un orlo e non c’è distinzione tra davanti e retro».
Nel suo lavoro tiene anche ad aspetti legati alla sostenibilità?
Patanè: «Personalmente, mi rivolgo solo a laboratori che utilizzano tessuti ecosostenibili. Sul versante human rights, tra noi stilisti, c’è una grande consapevolezza riguardo lo sfruttamento della mano d’opera, ma nessuno ha il potere di denunciare tale orrore. Per fare un esempio, i miei laboratori trattano il double, un tessuto “doppio” lavorato a mano. Nessuna macchina per ora è in grado di sostituire l’uomo, dunque l’alto costo dell’abito deriva anche dalla manifattura oltre che dalla qualità del materiale. Capi del genere in negozio dovrebbero costare almeno 700 euro, ma quasi ovunque, ormai, arrivano anche a meno di 100 euro. L’unico modo per potersi permettere questa riduzione di prezzo è sfruttare il lavoratore che realizza il prodotto attraverso turni disumani. Stiamo vivendo un momento di grande confusione, ma, mediamente, il marchio made in Italy resta quello più autorevole e responsabile».
Lei è anche un apprezzato pittore, che rapporto c’è tra moda e arte visiva?
Patanè: «Il collegamento parte dall’ispirazione. Un artista arriva a un’idea di bellezza molto prima di un creativo (ndr: con questo termine, Patanè intende gli stilisti). Nella moda, tutti vengono ispirati dall’arte e dall’architettura. Io per esempio, ho dedicato diversi outfit di una mia collezione estiva alla poetica del maestro brasiliano di arte visiva Helio Oiticica. Ho anche realizzato, grazie a plauso e liberatoria dalla vedova di Alighiero Boetti, un capo caratterizzato all’interno da lettere circoscritte da quadrati andando a formare, in ordine sparso, il mio nome “Giuseppe Patanè”, con contrasti di colore molto forti. Seguendo, appunto, la lezione del caposcuola dell’arte povera».